Antonella Lucchini, videolettura-presentazione; saggio inedito “L’opera d’arte come affermazione...", nota di Mara Cini

 

L’opera d’arte come affermazione del proprio sé: Flaubert e Van Gogh

 

L’opera d’arte come l’uovo dischiuso dell’inconscio. I segni e il loro bagaglio, siano essi colori o parole, sono frutto del nostro albero interiore e dei suoi fantasmi. Chi ha il dono della creatività, chi riesce a produrre arte, che sia pittura, letteratura o poesia ha il potere, come disse Paul Klee, “di rendere visibile l’invisibile”, di tradurre la lingua dell’inconscio in espressioni grafiche. È necessario fare atto di disambiguazione. Per affermazione del proprio sé, qui non si intende discutere della questione se l’autobiografismo sia un peccato, una colpa, un’omissione di modestia, ma sull’importanza che l’opera artistica può costituire nei casi in cui l’uomo o la donna artista patisca di una qualche mancanza affettiva o di un disagio (non necessariamente psicotico), ricordando che, come ebbe a scrivere Giacomo Leopardi in un’accorata e orgogliosa lettera al padre Monaldo, nel luglio 1819 “…e perché la carriera di quasi ogni uomo di gran genio è cominciata dalla disperazione…”. Gustave Flaubert e Vincent Van Gogh, l’uno scrittore l’altro pittore, sono accomunati dalla stessa “patologia affettiva”: l’assenza del nome del padre o, per dirla con Lacan, la forclusione del nome del padre.

Flaubert nasce come secondogenito di Achille, un rinomato chirurgo di Rouen. Il primo nato, Achille, verrà avviato dal padre alla sua stessa carriera, come proprio clone: stesso nome, stessa professione, così da tramandare l’eredità paterna. La moglie, desiderosa di avere una figlia femmina, anche per poter riscattare la propria esperienza traumatica (la madre era morta dandola alla luce), attende con ansia i 9 mesi della gravidanza successiva. Nasce Gustave, il non previsto, il non atteso; Gustave che doveva essere femmina. Dopo qualche anno, finalmente arriverà l’ agognata figlia. Ricapitolando schematicamente: il primo figlio è il prediletto del padre, colui che traghetterà il nome e il cognome ai posteri, la terza sarà tutta a disposizione della madre. E Gustave? Si troverà nella terra di nessuno, con un nome che è un significante riempito da nulla: niente considerazione, attenzione, insegnamenti, rispetto per l’unicità individuale. Si vedrà più avanti, con l’esempio di Van Gogh quanto sia devastante avere un nome vuoto. Per tornare a Flaubert, la mancanza del riconoscimento di figlio atteso (elemento fondamentale per la crescita sana e consapevole del bambino) lo porterà a definirsi, all’età di sedici anni, delicata età di passaggio, come un “fungo gonfio di noia”. In questo ambiente anaffettivo si sviluppa l’idiozia di Flaubert, che Sartre prima e Jacques Lacan dopo definiranno bêtise. Veniva considerato il giullare della famiglia (atroce lo scherzo di uno zio che gli chiedeva: “Gustave, vai a vedere se sono in cucina.” Il bimbo correva a sincerarsi, tra le risate dei presenti, e al suo ritorno ovviamente rispondeva “No, zio, non sei in cucina”). Lui, l’idiota, lo zimbello, diventerà un genio della letteratura: tanto quanto la sua vita è stata imperfetta, informe, la sua scrittura sarà una magnifica perfezione, creerà una nuova forma di romanzo. Attraverso di essa, Flaubert si darà dunque un nome, un’identità, un valore. Affermerà il proprio sé. E come non leggere in quel “Madame Bovary c’est moi!”, anche il suo grido di affrancamento da una condizione di sottovalutazione?

Biografia sconvolgente quella di Van Gogh. Nasce il 30 marzo 1853, a un anno esatto dalla nascita/morte del fratellino Vincent. Se Flaubert è il figlio non atteso, Van Gogh è un bambino desiderato ma solo ed esclusivamente perché deve sostituire il fratellino morto. La coincidenza terribile della sua data di nascita con la data della morte del primo Vincent, suggerisce al padre pastore protestante il macabro rituale di portare Vincent, ad ogni compleanno, a visitare la tomba del fratellino. Così Van Gogh vede il suo nome e la sua data di nascita su una tomba: si vede morto. Figlio sostituto e figlio che festeggia il compleanno in un cimitero. La questione del nome proprio di persona va ovviamente al di là delle mere circostanze burocratiche: dare un nome al figlio significa non solo riconoscerlo come frutto del proprio sangue ma lo iscrive all’ordine simbolico della famiglia prima e del mondo poi, cosicché lo identifichi come individuo unico con le sue specificità e caratteristiche. Come ricorda Massimo Recalcati in Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh “Nel caso di Vincent Van Gogh il nome proprio, anziché sancire questa iscrizione, svolge piuttosto la funzione di alienarlo nel nome di un altro negandogli ogni iscrizione simbolica nel campo dell’Altro”. Questa condizione lo porterà, giocoforza, a non trovare il proprio posto nel mondo (al fratello Theo scriverà di sentirsi “un cane randagio”) e a sviluppare una melanconia che lo accompagnerà per tutta la vita fino a degenerare in uno scompenso psicotico che lo porterà al suicidio. La pittura è il tentativo di dare un senso al suo esistere, di darsi un’identità; lui, caduto nelle tenebre, cerca ossessivamente la luce; il suo vagabondare dal nord al sud della Francia, è percorrere la strada verso la luce, verso l’intenso sole meridionale, perché il Sud è la vita, per lui che è stato un bambino sostituto di un bambino morto, e egli stesso morto in vita. Un viaggio che si rivela anche attraverso le tele, attraverso i colori che si fanno via via più carichi, più chiari. Afferma il proprio sé, il proprio nome attraverso la sua opera diventando, in qualche modo, padre e figlio di sé stesso.

 

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Cosa è dunque l’opera d’arte se non un contenitore di spasmi, emozioni, deliri, sogni? Quale grande grazia è poter riscattare, per suo mezzo, una biografia deludente e sofferente? Benedetta sia la reciprocità della relazione tra l’artista e la sua opera, per cui egli la crea a partire dalla propria biografia zoppicante e lei ricambia donando in ritorno una cura, i centimetri che mancano.

L’opera d’arte è figlia generosa che restituisce.

Secondo Lucchini, nell’opera d’arte possono riscattarsi eventi irrisolti o traumatici della propria biografia zoppicante. Del resto gli studi sulla cosiddetta sindrome degli antenati e la psicoterapia transgenerazionale analizzano proprio questi fenomeni.

In certe “ferite famigliari”, nell’ordine simbolico dei nomi, nelle fessure della propria imprecisa identità può inserirsi, come “cura”, l’espressione artistica con risultati tanto più alti, a volte, quanto più profonde furono le ferite.

Vedi per esempio, Flaubert e Van Gogh.

 


Antonella Lucchini nasce a Mantova, dove tuttora risiede, nell’aprile del 1964. Agli inizi del 2013 pubblica la sua prima raccolta di poesie, Tra morsi e strida, per la casa editrice REI, seguita da Il margine bianco (Ed. Divinafollia).

Ad aprile 2017 esce la sua terza silloge poetica, Il Femminino e la sua voce (ed. Il Seme Bianco - Castelvecchi).

Scrive, oltre che in italiano, anche in francese, inglese (lingue di cui è anche traduttrice) e in dialetto mantovano cittadino.

È redattore del sito di recensioni librarie Mangialibri.