Note di Flavio Ermini sui tre libri vincitori nella sezione Opera Edita

Luigi Ballerini, Cefalonia,
nota dell’autore, Milano, Mondadori, 2005

Poeta, traduttore e saggista, Luigi Ballerini è nato a Milano nel 1940 e vive a New York. Insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università della California a Los Angeles. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia. Come teorico della letteratura si è occupato soprattutto delle avanguardie storiche e ha curato numerose antologie di poesia italiana e americana.

È un dialogo in versi quello a cui assistiamo nel libro di Ballerini Cefalonia. Le voci appartengono a una vittima e a un carnefice. Il luogo di cui si parla – e dove forse si svolge il dialogo – è Cefalonia, là dove nel 1943, dopo l’armistizio firmato dall’Italia l’8 settembre, i tedeschi massacrarono la guarnigione italiana che aveva rifiutato di deporre le armi. Perirono oltre 5000 uomini.

In questo libro, due figure, che esprimono visioni della vita tra loro incompatibili, si straziano in un dialogo accanito. O più propriamente in un “monologo a due voci” come suggerisce l’autore stesso. Questa chiamata verso la riflessione è imperiosa, tanto che sottrarvisi è impossibile: sia per il soldato italiano caduto, sia per l’uomo d’affari tedesco.

Frase dopo frase, la luce getta i suoi mutevoli dadi su una contraddizione inconciliabile. L’orrore dell’episodio evocato diventa l’archetipo di mille altri orrori che i violenti meccanismi del potere producono in ogni tempo.

Leggendo Cefalonia, è inevitabile pensare alle guerre tuttora in atto. Così com’è inevitabile sprofondare lo sguardo nella notte del mondo dove nulla è più conoscibile e tutto sembra indurre all’autodistruzione.

Il dialogo si svolge in versi ampi, prossimi alla prosa. Perfettamente aderenti ai congegni della comunicazione messi in atto. È martellante il ritmo interno, tanto che l’affiorare di ogni frase ha l’immediatezza di un colpo di bacchetta sopra un metallo sonoro.

Con questa opera, Ballerini indugia sui crocevia dell’esistenza e ferma lo sguardo sulla modernità. Nel farlo, mostra come l’orrore si lasci annunciare nel dire comune. E per dimostrare ancora una volta che il monumentale disegno del pensiero storico è formato da presenze minime spesso fra loro sconosciute.

La storia sta innanzitutto nei fatti in accadimento. Purché si sappia riconoscerne la portata e si sappia rivoltarli come fanno gli autori a cui Ballerini di tanto in tanto lascia la parola: Tacito, Stein,Celan, Hugo, Pascoli…

Ogni descrizione dei fatti denota la pazienza di Ballerini nel rimanere a lungo all’interno di quelle postazioni che possono fargli apprendere qualche lezione sulla natura dell’essere umano. Egli osserva il Novecento al di là delle sue sconfitte e delle sue fanfare. Per poi spingere lo sguardo ancora oltre. Verso il nostro destino di esseri mortali.

Adotta insomma una visione della vita, in virtù della quale diventa visibile la miseria del presente e la vanità delle sue promesse illusorie.

Flavio Ermini

Albino Crovetto, Una zona fredda,
presentazione di Milo De Angelis, Milano, La Vita Felice - Niebo, 2004

Albino Crovetto è nato a Genova nel 1960. È poeta, artista e fotografo. Ha tradotto la raccolta poetica Arie di Philippe Jaccottet (2000). Collabora a diverse riviste di poesia, tra cui “Origini”, “Poesia”, “Frontiera” e “Arca”. Vive a Pieve Ligure. Una zona fredda è la sua opera prima.

Il mondo che ci è stata assegnato (una “pianura interna” lo chiama Albino Crovetto) si stende quasi interamente dietro di noi.
Davanti, una linea lo delimita. Oltre, è in vista uno spazio indecifrabile. Dove la pianura sta terminando, il nostro passo perde la sua speditezza. Si fa cauto.
Misura ogni tratto che, procedendo, deve annullare. Si fa consapevole.
Non si dà salto, ci dice l’autore, fuori da questa “pianura interna”. Il limite stesso non è pensabile solo come fine, ma anche come limen, che rivela un eccesso situato oltre un regime di conoscenza.

Con questo libro di Crovetto , ci troviamo di fronte a due precipizi che delimitano l’inizio e la fine dell’essere.
Quando la scorreria nel tempo si riduce a una breve memoria, nulla resta da cercare se non un’ulteriore domanda alle insistenti interrogazioni che provengono da quella linea.

La vita, indica Crovetto, sta in questo muoversi per barbagli luminosi, nel sempre diverso innervarsi di forme costantemente uguali. La sera, per esempio, aderisce alle persone come il vapore a un cristallo. Trapassa il pensiero di noi travestiti da vivi. E disegna le nostre ore in modi variabili. Questa dura ombra ha molti sembianti. E nessuna forza ha la capacità di rimuoverla dal cristallo che va piano coprendo. È una vera e propria esperienza del negativo, raccolto nella sua assoluta inesplicabilità. L’uomo, registra Milo De Angelis nella presentazione, “non abita più dove respira”.

La giornata è una pianta formata da rami recisi. Questa pianta riuscirà a staccarsi sempre di poco dalla sua matrice terrestre, anche se sarà chiamata ripetutamente dalla vastità che la sovrasta.
Traccerà lo spazio di un intervallo a partire dal quale tutti i sensi sembreranno possibili. In realtà, nessuna nuova luce si profilerà oltre le fronde, dove la “pianura interna” ha fine.
L’inizio e la fine: Crovetto cerca di portare alla vista umana la linea proibita sulla quale questi limiti tra loro confinano, per poterli poi insieme immaginare. Il nostro pensiero è possessore di mezze verità e poco altro è concesso.
Il nostro pensiero, insiste Crovetto, è la potenza che sposta l’ondata e insieme la barriera che la contrae. O forse è la garanzia del nostro perpetuo oscillare fra momenti che stanno sopra e sotto il rigo delle emozioni abituali.
Ecco cosa ci indica l’opera: ciò che salva la vita è quello stesso elemento che la condanna e le toglie valore: la “zona fredda” dell’esilio.

Flavio Ermini

Franco Falasca, Nature improprie,
postfazione di Francesco Muzzioli, Milano, Fabio D’Ambrosio, 2004

Franco Falasca è nato a Civita Castellana (VT) e vive a Roma. Poeta e narratore, ha prodotto anche poesie visive, film super 8, video, fotografie, performances. Ha partecipato a molte mostre personali e collettive. Suoi testi sono stati pubblicati in volume, oltre che su varie riviste e antologie. Alcune sue opere sono state messe in scena in diversi teatri italiani.

La poesia di Franco Falasca va seguita con la libertà a cui il suo gesto di poeta invita. Si spezza un filo, ma poi viene ricongiunto da un’altra parte. Come la nostra vita, che continua a restituirci al ciglio della finitudine, adeguata al nostro respiro di esseri in transito, bendati dall’incertezza.
Il luogo a cui Franco Falasca fa cenno copre quell’orizzonte silenzioso che sta al di qua e al di là della parola razionale. È l’orizzonte che si sottrae sia alle dinamiche istituzionali della letteratura, sia alla logica del discorso.
Su questo orizzonte, tra razionalità e follia, Falasca ci mostra cosa accade quando su quel confine la parola si assume il compito di tenere insieme i poli di una tensione irriducibile.
Su questo orizzonte il paesaggio è contrassegnato da frammenti di memoria. Il soggetto sfuma in forme di soggettività plurima ed è direttamente a confronto con movimenti sottratti alla chiarezza rassicurante della coscienza.
Qui può farsi visibile l’oltranza, il luogo di caduta e di strapiombamento; qui l’opera si mostra nella forma che precede il senso o addirittura nella forma del congedo da un senso.
Tale esperienza comporta il passaggio più pericoloso: attraversare l’estremo ammutolire, il vuoto in cui la lingua ancora non ha parola o non l’ha più.
Per questo motivo si può dire che la pratica di scrittura di Falasca appartiene a quella particolare concezione del mondo secondo la quale non ci attende che la libertà di testimoniare la nostra appartenenza al niente, fino al punto di riconoscerlo come nostro essere. Non a caso nella postfazione Francesco Muzzioli certifica: “La lotta contro la codifica del linguaggio costituito […] ha sullo sforndo l’ipotesi radicale dell’annullamneto e della cancellazione del senso”.
Il tempo in cui s’inscrive il gesto di Falasca è il presente della creazione; la sua direzione va dal caos all’interminabile congedo dal senso. In questa direzione c’è la parola che pretende di aver assistito alle origini: all’iniziativa inaugurale che stringe insieme i tratti più disparati degli eventi. E dà vita alla scena primaria: alimentata non dalla percezione dell’immenso ma dall’esperienza del limite.

È così che Falasca ci espone al principio della necessità che ci ha fatto pensare. Per effetto di un gesto interiore, testimonia che il problema dell’origine per la parola è una questione capitale: concerne la provenienza della sua essenza.

Flavio Ermini