Tiziano Salari su Giulio Marzaioli, Premio Raccolta Inedita

Tiziano Salari su “In re ipsa” di Giulio Marzaioli, vincitore per “Raccolta Inedita”

1

In re ipsa. Nella cosa stessa. Che significa? Trattandosi di versi significa che il poeta intende dirci che si colloca nell’altrove della poesia, cioè dentro la cosa stessa, o all’opposto che ci parla dal cuore della realtà, dal cuore dell’Essere, e quindi la cosa stessa è il rovescio della poesia, la parte in ombra, cioè la vita nella sua oscurità prepoetica, in cui il poeta è immerso anelando all’altrove della poesia? I tre versi iniziali sembra che ci pongano davanti a questa alternativa. Ammira i rami, mira/ dalla terra al cielo./Le radici invece… Da una parte il richiamo allo spazio aperto del cielo, verso cui si protendono, in piena luce, i rami dell’albero: dall’altra le radici che affondano nell’invisibilità della terra. L’opposizione è tra un fuori e un dentro, un sopra e un sotto, tra apertura e chiusura. Proseguendo, Marzaioli insiste nell’antitesi, che diventa la cifra del suo stesso dibattersi in una bipolarità di immagini che si fronteggiano o si mescolano tra loro fino a confondersi ed annullarsi reciprocamente. I quattro versicoli successivi sono apparentemente enigmatici ma in realtà non fanno altro che interrogarsi sul rapporto tra la carta ricavata dalla lavorazione del legno degli alberi e la matita che sopra graffia (che credo voglia dire scrive). E che cosa scrive? Scrivere a sangue l’epitaffio (da lapis, conseguendo). Forse la poesia è scrittura fatta col sangue, una morte in vita, come sembra suggerire l’epitaffio, e quel da lapis conseguendo non è la matita, ma nel suo significato latino, la pietra su cui è incisa l’iscrizione tombale. Ma ecco sopraggiungere la mescolanza, la metamorfosi, per cui rami e radici si uniscono in un unico groviglio, e anche si rivolta in sé, la luce. E la luce che si rivolta in sé è ombra, tenebra. Il poeta sembra sottoporci dei rebus, e allora bisogna sorprenderlo in qualche luogo più scoperto, dove il suo stesso fare poesia è messo al centro della riflessione, e si chiarisce forse che In re ipsa, nella cosa stessa, significa essere nella scrittura stessa che si sta facendo sul foglio, anzi negli strumenti stessi della scrittura. L’inchiostro si annoda tra riga e pausa./È una rete in cui riposa il nero,/quasi un nido se non fosse che la frase/vira in bianco sul foglio, non racchiude. Sorprendersi e poetare sull’atto stesso di scrivere non è soltanto dei moderni. In un sonetto Cavalcanti, riinventando una tradizione che risale all’Antologia Palatina, fa parlare le penne e gli arnesi per temperarle (le triste penne sbigottite,/le cesoiuzze e l’coltellin dolente), “nella geniale metonimia per cui penne, forbici e coltellino” dicono di essere “partiti, ossia dolorosamente separati, al modo di spiriti, core ecc. dal loro autore” (dal commento di Domenico De Robertis, a Guido Cavalcanti, Rime, XVIII. Gli strumenti di scrittura arretrano spaventati di fronte all’alienazione e distruzione del soggetto poetico e sono essi stessi “bisognosi di aiuto e di conforto”. Ora Marzaioli ci dice che l’inchiostro arretra di fronte all’alba pratalia, i prati bianchi, che si aprono a dismisura sul foglio, senza che il negro semen riesca più a racchiudere qualcosa. Che cosa? Probabilmente il senso del folle atto stesso di scrivere. Nella sezione che s’intitola Crepe troviamo altri versi dedicati alla scrittura, in cui le cesoiuzze di Cavalcanti sono diventate un ago che incide la carta, e la carta dunque non può essere altro che la carne del poeta. E qui la traccia d’inchiostro è assimilata a una specie di droga o di atto erotico preliminare e la scrittura stessa all’orgasmo. Nervatura di inchiostro che anticipa/la monta/. Scrittura. Il piacere. Sismografo./La spezzatura. Abbiamo colto il poeta sul fatto e ormai ad ogni passaggio lo vediamo In re ipsa inchiodato. E la contraddizione, l’antitesi, tra sopra e sotto,tra il dentro e il fuori, tra poesia e vita, tra apertura e chiusura, la ferita aperta nel cuore stesso dell’Essere? Il poeta ironizza su se stesso, sulla sua carne ferita dall’ago della scrittura e malamente rimarginata: (notizia – la ferita dall’esterno: il tempo si ricuce nella carne); cioè il tempo nella scrittura non esiste, o è un eterno presente che si rattoppa continuamente nel movimento scrittorio. O ancora: (notizia – la ferita dall’interno:/nascosto nella lama il taglio resta): e cioè , rendendo esplicito il pensiero sotteso o inconscio, sulla pagina la ferita sembra essersi suturata, ma nella vita il male è sempre pronto a colpire. Leggendo l’opera di Giulio Marzaioli partendo da questa interpretazione, in tutta la sezione Spazzatura sembra che il poeta voglia invitarci a raccogliere quello che rimane di lui passato al vaglio della scrittura. Questi i resti: morsi/ arsi,resi, versi. E della Storia (con la S maiuscola) sullo sfondo della Grafia di una storia minore, quindi la sua storia soggettiva. Due facce che interagiscono e che purtroppo ci sono, ineluttabilmente. E il poeta rimesta in questo fondo di spazzatura, di negatività, con l’ossessione della chiusura, che inizio e termine coincidano, sigillati in una bara, ma che, barando, la vita sempre riprenda, e anzi morte e vita, nella scrittura, si confondano l’una nell’altra , e la prefigurazione della morte non prepari che il concime per nuove fioriture. Nel sogno si vede steso. Stessa/posizione in sonno. Terra distesa/ nel concime. Fioritura. Giorno. Giunto a questa nota critica, il lettore sa, tuttavia, che il poeta non ha mai pronunciato una sola volta il pronome “io”, e neppure, a ben vedere, si è proiettato in un “egli”, ma piuttosto ha lasciato che, impersonalmente, assistessimo alla triste orografia di un ossimoro,cioè all’opposizione , In re ipsa, tra due tendenze apparentemente contraddittorie che si abbracciano nello stesso elemento che è il negro semen sparso sulla pagina, discarica come la parte residuale di una spezzatura o di una soggettività abolita. E, concludendo, inchiostro. Non sorprende quindi di trovare nelle ultime pagine del libro , abbandonati i versicoli, delle vere e proprie colate verticali d’inchiostro sulla pagina, discarica, in cui, quanto ci è stato detto in forma criptica, viene replicato attraverso un assillante Riflesso di ipotesi contrapposte che si elidono reciprocamente (…tutto quanto/somiglia al vero, tanto…tutto, somigliando, passa), o disseminato in Vene che amplificano l’ossessione dei prati bianchi, dei fogli , qui assediati dalla neve e dal gelo, nulla nel nulla,(…) solo bianco su bianco a cadere. La pagina dunque come luogo del proprio annullamento (Era e non era, comunque non è; /altro che il sangue gelato dentro) e del proprio disgelo (e ciò che era fuori colato qui/come parole che si sciolgono al sole,/solo parole da sciogliere. Come ?). Marzaioli chiude praticamente con questo interrogativo, cioè su quale strada incamminarsi per riempire lo spazio vuoto nella molteplicità delle sue implicazioni di scrittura destinata a convivere con la propria negatività, il bianco, collaborando, bianco e scrittura, alla stessa perdita/produzione/perdita di senso, facendo combaciare l’uno contro all’altro significante e significato fino a non essere altro che le schiacciate/ righe degli ultimi due versi. E qui potremmo rifarci anche a qualche sublimea esempio classico, come “Le beau papier de mon fantôme/ensemble sépulcre et linceul…” (“Il bel foglio del mio fantasma/Sepolcro e sudario insieme”) di Mallarmé (Hérodiade), nella compressa dimensione del nichilismo contemporaneo, senza vie di fuga nel simbolismo, e costretto a fare della scrittura il luogo di una virtualità, di una pulsionalità originaria e finale al tempo stesso. In re ipsa. Non c’è un altro Dio che possa salvarci.