Evelina De Signoribus, “Trasalimenti”, racconto inedito

 

Trasalimenti

 

In alcuni casi non ci accorgiamo quando le ferite si aprono perché non sempre fanno subito male. A volte il sangue che fuoriesce sembra inarrestabile e prende una consistenza che spaventa e annebbia la vista… Altri si accasciano, senza segni apparenti di violenza, in una terra che diviene sconosciuta...

Così mi càpita, sempre più spesso. E quando mi riprendo cerco di pensare una cosa alla volta. Mi devo muovere lentamente per organizzare meglio lo spazio intorno a me, per passare inosservata e camuffare il disagio.

Credo che tu sia uscito stamattina presto. Ora anche io mi dirigo a stento verso l’appendiabiti, prendo il cappotto ed esco senza indossarlo. Non ho né caldo né freddo. Arrivo in strada e la ragazza del bar di fronte mi fa cenno con la mano di avvicinarmi, vuole offrirmi un caffè. Ci siamo conosciute un giorno che io ero sola. Parla tanto e non capisco tutto quello che dice. Ma mi piace stare seduta e ascoltare. Entrano due clienti, sembrano molto indaffarati, forse devono ancora fare pranzo. La ragazza è agitata e io giustamente non esisto più e torno in strada…

Mi chiedo quanto conti la mano tesa verso l’altro. La sempre più rara tensione dell’arto in procinto di aiutare. L’accoglimento di quel gesto che può essere incondizionato o perplesso. Invece vince sempre il vuoto degli sguardi. E l’impossibilità della parola, la fine del linguaggio, l’amnesia del tatto, preannunciano l’ennesimo boato.

Ci scompigliamo, scappiamo o ci buttiamo a terra.

Ho camminato tanto e non so più dove mi trovo, tutti vanno avanti e indietro e io mi sono perduta, non conosco bene questa città, si sta facendo notte e le luci delle auto quasi mi vengono addosso. Mi trapassano e finiscono fin dentro le case, o esplodono dentro gli occhi e accecano.

Potrei aspettare anche qui, dove sono finita, se tu venissi a prendermi.

Senza muovermi, mi accuccio e non darò nell’occhio. La gente non si cura più tanto di quello che fai e non ti dovrai nemmeno vergognare di me. Se non ti vedo e mi vedi tu, per primo, chiamami, così che mi alzo e ti vengo incontro e ti chiederò scusa perché non sarei dovuta uscire. Ma forse avevo un’oscura ragione per uscire…Forse sono scappata per gli incessanti bombardamenti… In questo posto, dove mi trovo, non so darti un punto di riferimento, mi sembra tutto uguale, un luogo raso al suolo. Non vedo più le case.

Per terra non ci sono né formiche né foglie, qualcuno le avrà spazzate prima del vento. Mentre mi riporterai dove abitiamo, vedrai che indosso il cappotto verde scuro. Mi perdonerai se non sono brava a orientarmi ma a casa ogni cosa l’ho lasciata al proprio posto.

Mentre aspetto provo a pregare come faceva mia nonna. Ma non so bene come si fa, quello che si deve dire. Per molto tempo ho pensato che non sarebbe mai stato necessario, che mai mi sarei ridotta a quel mistero. Lei bisbigliava qualcosa tra i denti che tanto mi incuriosiva ma che non riuscivo a percepire, teneva una corona in mano e la passava e ripassava tra le dita. Se ne avessi una, con me, adesso, potrei stringerla anche io tra le mani e forse mi verrebbe in mente qualcosa da pronunciare. Non ho catenine al collo. E non conosco i santi di questa città. I loro giorni, le loro feste, i loro martiri. Qui conosco solo te.

Allora è questa la guerra? Quella che mette nelle condizioni di non poter dire e fare nulla? Mi sembra di avere, in questo frangente, un attimo di lucidità. Eri tu che mi parlavi spesso della guerra e se ne parlavi, mi domando, la conoscevi? Avevi messo da parte delle armi per difenderti?

Poi vedo il nero più profondo nella notte dichiarata.

Dammi il consenso di ritornare a casa, te lo chiedo in segno di resa. Non pensare che sia troppo, non vederla come un’intromissione. Non fare un mistero dei tuoi averi. Un barbone, uno sbandato, un parassita… non credere che sei, tu, un dio, quando lanci una moneta. Quello non è un segno di carità e tantomeno una conversione. Chi ti ha creduto è disperato, così come chi non ha mai pensato alla tua esistenza. Quanti postulanti vedi ora in più ai tuoi piedi? In ogni caso siamo tanti… per questo, quando ti tendiamo la mano, hai l’imbarazzo della scelta? Avere la possibilità di scegliere significa essere libero e non sacrificato. Sei vestito e corazzato e potresti salvarmi.

Mi assopisco e quando riapro gli occhi mi rendo conto che è da te che dovrei fuggire, dalla tua guerra. Vorrei quasi costringermi ad attraversare la strada, a muovermi. Qualcosa ancora mi trattiene. Ma nessuno ha luce e anche nel tuo esercito sono in troppi a gridare.

 

 

Evelina De Signoribus è nata nel 1978. E’ laureata in Letteratura Italiana Contemporanea a La Sapienza di Roma. Alcune sequenze poetiche sono apparse su “Nuovi Argomenti” (n. 36, 2006), “Il Caffè illustrato” (n. 34, 2007), “L’immaginazione” (n. 233, 2007) e nelle antologie 12 Poetesse italiane (Nuova Editrice Magenta, Varese 2007) e Jardines secretos Joven Poesìa Italiana (trad. di Emilio Coco, SIAL Ediciones, Madrid 2008). Nel 2008 ha pubblicato il quaderno di racconti La capitale straniera (questipiccoli, Ascoli Piceno). La sua prima raccolta di poesie si intitola Pronuncia d’inverno (Canalini e Santoni, Ancona 2009).