Alessandra Cava, poesie inedite da “RSVP”

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in sorellanza sono gli anni gentili, sono gli anni, indicativi
presenti, muscolo lingua che sbava disegni sull’incanto dello stare
dove i muri si incontrano, nel tutto finito e oltre, e
oltre neppure un suono: il sottoscala non ha porte, non si slacciano
i polsi, non chiama nessuno, nessuno muore -

 

 

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in memoria imprimo l’angolo dell’oggetto: registrarsi immobile
del frammento, inquadratura fissa della frammentazione, contorno
da strofinare con l’occhio, depositarsi antiquario dell’occhio in potenza
nascosta di cosa, di pezzetto di carta, di orecchino, di scarpa
di bambola, in sua piccolezza, in sua riduzione indicibile -

 

 

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e cammino in queste strade incrinate, in queste
fuorviate strade del petto, nel battere clamoroso
del petto, nello spaccato battere di questo mio divenire
orizzonte, sala d’aspetto, corpo in filigrana, organo incerto -

 

 

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fossi il limite inutile, l’inganno del confine, fossi l’apertura
generosa del valicare, fossi quella generosità del confine a
schiudersi, disponibilità infinita dell’accedere, del passare,
dell’oltre, del traversare - potessi sporgermi da tutti i balconi
e vedere passare, potessi vedere passare le cose, potessi, sapere
per caso che cosa, l’oggetto che ha trama speciale, che ha l’intreccio
introvabile, lo strappo, introvabile tessitura delle cose perdute -

 

 

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amore durissimo, articolarsi delle ossa, scorrevole
rotolarsi delle ossa dalla pelle, solitarie per quel loro esitare
la diramazione, incantare, mettersi nel canto, mettersi
tutte nel canto, nell’aspro canto del sangue, nell’angolo
appuntito dei nervi, nello schiocco delle membrane, nelle aritmie,
nella violenza delle arterie, per quel lasciarsi ricoprire, isole
bianchissime nella carne, per la loro modestia di impalcatura,
di scheletro schivo, di lungo fiore sotterraneo, di radice -

 

 

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oggi è un sole lungo, uno sguardo di notte bianca -
natura mi scosta, mi ignora: di sicuro la offende
il mio amore d’interni, di tubi, di tetti, di vetri all’incastro;
ma poco le basta, quel poco che afferra alle spalle
con passi d’altalena, quando sbaglia e prende aloni d’inferno,
quando pare artificio, un inganno, uno schermo
e m’attendo si spenga - processo d’infrazione del mondo, nulla
che raduna i suoi pezzi, così il mio seguire una parola
con altra in spazi di vuoto - ecco me allora, a chiedere di quale
tessuto è il ricordo, di quale s’intreccia, se è uguale, uguale
il colore - ecco allora l’immagine fatta di niente, ecco che arriva,
ecco, col suo bagaglio di niente - si sta a scrivere
allora, si sta in angolo stretto, si sta –

 

 

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continuo stare, questo stare in vita per vie traverse,
secondarie strade dell’assenza che disegna nitida
la fessura del canale, questo stare in parole abitando
la dimensione orizzontale, leggera, del narrare -
ora è estate che sfinisce, liquefazione dei sensi,
dei cataloghi ragionati: si va a capo per sentito dire,
dentro un’istintiva nostalgia di mani fredde, di giri di maniglie,
di vento e strade vuote - neanche ora c’è equilibrio,

qui nell’aria ferma della scelta si sta a caso e per stortura
d’animo, qui si incrociano gli sguardi e si distolgono, ma le dita
sfuggono, tentano raccordi - tutto intorno è piegarsi alle linee
spezzate e chi ha un vago rimpianto dei tornanti non si volta -
mentre io vado a cercare sconforto negli specchi, le ginocchia
mi abbandonano davanti allo splendore, ormai luogo
comune, che ancora non abbiamo consegnato -

 

 

ALESSANDRA CAVA è nata a San Benedetto del Tronto nel gennaio 1984. Ha studiato Storia del teatro all’Università di Siena e vive ora tra Roma e Bologna, dove si sta laureando in Discipline dello spettacolo dal vivo. Lavora con Altre Velocità, gruppo di osservatori e critici delle arti sceniche. La sua prima raccolta, rsvp, segnalata al Premio Montano, è di prossima pubblicazione per Polìmata, collana ex[t]ratione.