Marica Larocchi, da “Polveri Squame Piume”, puntoacapo 2020, nota di Laura Caccia - Nel vibrare della lingua

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Nel vibrare della lingua

Una parola oscura e illuminata, profonda ed eterea, cosmica e prossimale, colma di sonorità e di visioni, quella di Marica Larocchi che, in Polveri Squame Piume, conferma il suo percorso poetico, introducendovi nuove immersioni nelle risonanze e nelle vibrazioni originarie del cosmo e del dire. Le dualità che, insieme ad elementi di fulgore, avevano caratterizzato, a partire dal titolo, le precedenti raccolte, tra le tonalità della parola e del mondo, gli elementi del macro e del microcosmo, lo splendore e l’impervio della materia reale ed esistenziale, qui si fanno tripartite e apparentemente più opache. In un’opera che mantiene lo stretto legame, intrecciato in precedenza, tra l’universale e il particolare, l’eco dell’enigma e la complessità del dire, ma che vi intensifica gli elementi di mutazione e di trasformazione.

Composta da quattro sezioni in scrittura poetica e una centrale in versi sull’arte di Mosè Bianchi al lavoro nel duomo di Monza, tutta la raccolta ruota sui processi compositivi - cosmici, artistici e poetici - e sulle loro disgregazioni. Tra Polveri, materie dell’origine e del dissolvimento, Squame, elementi di metamorfosi e di trasformazione, e Piume, palpiti dei nidi e dell’altrove. Nuclei del formarsi del mondo e residui della corrosione del vivere. Materiali dell’arte, anche. E della parola. Minimali, ma vividi e risonanti. Ad esprimere le vibranti mutazioni cosmiche e interiori. Gli strappi e i disordini. Le passioni e gli attriti. I vuoti e le rigenerazioni. Dopo «vacanze agli inferi o scorribande nell’orto». Ora tra «zoppia dei versi» o «sopra l’orizzonte del soffio più audace».

In una lingua fulgida e plurisemica. Concentrata e dislocante. Dall’affondo fermo e arrischiato e dal riverbero interminato e lieve. Una parola perturbata, quella di Marica Larocchi. E sempre illuminata, anche quando il materiale si fa più essenziale e dolente, meno sfolgorante. Quando prevalgono ‘polveri’ e ‘squame’ su ‘oro’ e ‘cobalto’, ‘rugiada’ e ‘cristalli’. Quando viene chiesto alla parola di spogliarsi di orpelli, di farsi cicatrice del lutto e di varcare «nell’ultima capriola lo spiraglio che s’apre vorace sul preludio dei fulgori. Là, ogni furore, ambascia e ustione potrebbe finalmente valicare la griglia dei segnali, mente e soggetto abrasi».

 

Da: L’ALTRA PLACENTA

 

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   Prima del senno mattutino promettiamo di triturare afflizioni e cilici, anche se qualcosa ci storna, ci transenna, quasi un divieto bleso o l’indice virtuale di chi ha gia centellinato la sua pozione di melassa e zolfo. Lei ci accoglie, ospitale come un prudente orzaiolo; c’invita a svuotare il sacco, a rimuginare il fato con sillabe disarcionate. Poi ci tranquillizza affinché ci prepariamo insieme a doppiare l’etimo più rischioso del passaggio in salotto. Allora: eccoci appesi al filo dei pronostici, imbozzolati dentro la gerla greve di sinapsi ancora in germe.

   Ci avverte che non udremo né il bisbiglio dei bulbi sotto le membrane, né lo squittio stroboscopico di memorie contumaci: nemmeno un rantolo di foia che si squami dalle sue commessure sapienti. Sentiremo, piuttosto, uno strappo di cedole molli, di frazioni o di eclittiche in mezzo al disordine di antiche decalcomanie. Oppure sarà come se l’orma del suo dito ci rigeneri nel menù variabile dei cicli, degli zodiaci sempre impegnati nelle loro staffette… Nascite mercuriali, quindi, per sinossi fosforescenti e vaporose. 

 

7

 

   Il vaticinio, infine.

   D’ora in poi: esentati dal soggiorno nel monolocale periferico con modanature di orazioni in rilievo tutt’intorno alla buia cavea del cuore. Altro che zaffiri e lapislazzuli! In realtà, lei l’aveva gia affittato senza scrupoli d’oblio a un giovane, inquilino insigne, ma per brevi scadenze... In effetti, se consenzienti, non fruiremo più di visioni avvampanti né di ricambi d’alfabeto. Niente più vacanze agli inferi o scorribande nell’orto. Invece fileremo, senza interruzioni di carattere, il nostro bozzolo di vocali asettiche, di dittonghi al minio, di ricicli e tremoli come dentro le minugia di una larva ad interim, per diatesi tronche tra crepe di acidi, capriole basiche e lampi corrucciati, immutabili. Da vera amica, ci assicura che ci sarà accanto per sempre, come rosa alla tempia per caso sfogliata senza antonomasie sul bordo di borragine smorta.

 

 

Da: NEL PAESE DEI TOTEM

 

5

 

   Si. Li abbiamo visti slittare insieme sopra la cute metallica dei sogni dentro piroghe di corteccia e muschio; e nel berretto, penne d’aquila reale per incidere profili allucinati. Filavano via – ve l’assicuro – più impercettibili delle comete traverso l’arco di Ulisse all’orizzonte.

   Notizie di qui? Avvistamenti a iosa di scafi e carcasse per la fame adunca di vampiri nababbi, quasi sul greto d’agonie in frantumi. In effetti, Caronte mai rinuncia al suo turno di guardia sulla battigia dove ragli e litanie fanno da contrappunto agli esiliati d’ebano a cui spuntano in premio cuori occhiuti.

 

 

Da: AUTOBIOGRAFIA

 

9

 

   Del resto, dovete infine accasciarvi qui, sul foglio. Anche se vi esorto a disperdervi adagio come certi semi prillati fuori da capsule gremite di desideri in conflitto, di giubili dolenti e di appelli desueti. Ormai àptere, piumette o caruncole di misteriose transverberazioni, ora non siete che trottole minuscole al loro estremo volteggio prima dell’approdo - della caduta? - sopra questo silenzioso candore dove già s’intravedono tracce spettrali, prossime e remote.

   Spogliatevi d’ogni orpello, imprimetevi, dunque, colate come bronzo fuso, minuzie mie! Fatevi cicatrice, solco e memoriale del vostro medesimo lutto; e, pari a effimere fiacche, varcate nell’ultima capriola lo spiraglio che s’apre vorace sul preludio dei fulgori. Là, ogni furore, ambascia e ustione potrebbe finalmente valicare la griglia dei segnali, mente e soggetto abrasi.

 

 

Da: SOPRALLUOGO

 

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   No, non è una resa. Vorremmo scalare ancora il dorso gibboso di certi suoni male pronunciati, quasi sfiato di mantice frusto; e infine issarci con agile piede sopra l’orizzonte del soffio più audace; ma i tracciati ormai sbordano sulle mappe di questa dizione, quasi per un colpo di frusta. E noi, svelti, c’immergiamo nello scafandro di penombre abilissime a compattarsi contro luci irrimediabilmente in fuga dalla reticella ormai fiacca del nostro appetito.

   Viene da lontano; è qui, accanto all’avida fonte del nostro vuoto, e rintocca come voce piena.

 


Marica Larocchi, lombarda di madre slovena, vive e lavora a Monza.

Ha pubblicato diverse raccolte di poesia, fra le quali Lingua dolente (Milano 1980, Premio Cittadella 1981), Fato (Milano 1987), Solstizio in cortile (Novi Ligure, 2009), La cometa e l’ibisco (Varese, 2013), Di rugiada e cristalli (Ferrara, 2017); opere in prosa narrativa e saggistica, da Trieste (Verona, 1992) a Rimbaud, un racconto (Lecce, 2005), da Luogo e formula, per una lettura d’Illuminations (Lecce, 2009) a Fantasmi (Lecce, 2013).

Ha curato e tradotto Primi versi e Ultimi versi di Arthur Rimbaud, un’Antologia dei poeti parnassiani (Oscar Mondadori, Milano 1992-1996); opere di R. Radiguet, di P. J. Jouve, di Charles Baudelaire (Milano 2005-2012) e L’infinitude di Jean Flaminien (Ferrara, 2012, Premio per la traduzione, Universita di Bologna 2013).

Collabora a riviste letterarie italiane e straniere con testi in poesia, in prosa e traduzioni