Loredano Matteo Lorenzetti, saggio, “Il suono dell’immensità”

“Sta come un pesce
che ignora l’oceano
l’uomo nel tempo”

Kobayashi Issa

“La vita reale è
soltanto il riverbero
dei sogni dei poeti”

Stendhal

1.

L’ingegnoso orecchio d’un telescopio ha udito il primo segno sonoro con cui l’universo ha manifestato il suo realizzato, ambizioso, desiderio d’immensità.

Simile al soffio musicale d’un flauto, l’inizio del cosmo ha pronunciato il balbettio del tempo. Giunto fino a noi, oggi, sottoforma di radiazione di fondo, dovuta allo scoppio primordiale, incandescente, di energia ovunque sparsa.

Così ci è dato sapere che la sonorità degli eventi ci appartiene. E’ la storia, il tessuto, di cui è fatta la realtà. Quella che ci ha nominati, parlando la lingua materica del remoto e del presente, che noi diciamo nei segni verbali dell’esistente e della nostra esistenza.

La stessa con cui l’eveniente è sul punto d’incontrarci, affinché la calda voce della vita continui a vivere della sua impalpabile essenza, con cui ci sfiora emozionandoci, accalorandoci, parlando della sua presenza e dell’oltre a sé che annuncia. Nella fredda caducità con cui l’istante scompare, muore a se stesso, perché possa apparire il dopo di sé.

L’apertura al venturo è condizione e cifra mutante dell’accadere degli eventi. E del poter nominare quel che, essendo stato, è sperimentabile, pensabile, dicibilmente conoscibile.

Allo stesso modo in cui il pensiero poetico nell’accennare a qualcosa la oltrepassa, per poterla mantenere al di fuori del suo destino d’impermanenza.

La poesia è il luogo del segno scritturale-sonoro che sfida la precaria fragilità, la labile transitorietà, la temporanea instabile fugacità del tempo. L’impersistenza d’ogni cosa, evento, circostanza, nel suo momentaneo presentarsi alla coscienza. Che l’attrito del tempo logora, consuma, polverizza. Perché fattuale, mutante, percettivamente sfuggente.

Essa nel di-segnare l’orizzonte dell’in-visibile del reale, nel superare l’apparente in-esistenza di ciò che il senso comune non afferrando esclude, ri-vela un in-conosciuto, che si sottrae all’aggressione con cui il tempo occulta, deturpa, modifica la realtà, nel noto suo apparire. L’abituale osservare, distraente e annullante la visione della profondità del reale, con cui, comunemente, guardiamo e verbalizziamo l’esperienza.

Sicché la poesia può mantenere quella ‘radiazione di fondo’ che pervade la voce del senso intimo, straorinario, originario e originale delle cose. Che essa sola, frastornante, possiede e nomina. E che le permette d’attraversare lo spazio temporale dei secoli e dei millenni. Mantenendo, intatta, l’integrità del suo fragore stordente. Che il radar dell’animo umano, captandola dagli abissi del tempo, rende stuporoso l’udito.

 

2.

Anche il rumore della parola poetica, provocato dall’urto con quella discorsiva, genera onde sonore creanti una diversa, alternativa, dimensione e significato della realtà.

Scontro risonante che l’udito sorprende e meraviglia. E che fa muovere lo sguardo dell’anima da ogni parte, per cogliere le cangianti, mobili forme di senso prodotte, vaganti nella vastità dello spazio da quell’impatto originatosi.

Il poetare consente di scrutare l’immensità del repertorio dei significati disponibili nell’universo del pensabile e del dicibile dell’esperienza, dell’esistenza. E non solo quelli della realtà, ma pure quelli che la trascendono e quelli che l’immaginano al di là di ciò che lo sterro reale/irreale sa pronunciare.

Tuttavia, secondo Thomas Stearns Eliot il genere umano non può sopportare troppa realtà.

Il verso poetico resiste a tale insopportazione. Perché ogni poesia, a proprio modo, ne contiene l’esatta quantità che l’occhio può incorporare, la mente sostenere, l’emozione amplificare, l’anima tremare.

Non può esserci alcun sovrappiù di nessun genere in un testo poetico. Se non la garbata misura che rende essenziale i suoni del suo dire.

Anche a motivo di questa sostanziale indispensabilità di parole il verbo poetico non dà corso a eccedenze d’alcun tipo.

E’ dalla penuria di suoni verbali che riescono a pronunciare l’impronunciabile che il poeta tenta di far deflagrare il cosmo sonoro del verso.

Ed è la parola che va in cerca del poeta. Di colui che le impedisce di soffocare nelle pagine compresse, ingiallite, usurate, dei vocabolari del quotidiano discorrere, lasciandola respirare nell’aperto dei significati dell’inchiostro poetico. Colui che le dà labbra per sillabare altra voce, tono, intensità, ritmo, senso, da quello che il chiacchierare ordinariamente le affida.

Tuttavia, il poeta sa che è la creatura della propria penna e che grafa, con atto panico, un ‘infinito scritturale sonoro’, che neppure a lui è dato sapere, del tutto, la vastità a cui accenna. Lasciando che alfabetici inchiostrati segni poetici vaghino per il mondo a incontrare un orecchio che, ascoltandoli, possa nutrire la mente, ampliare l’immaginale, penetrare il nero che li traccia e palpitare il cifrato suo messaggio.