Laura Caccia su “L’indifferenza naturale”, Marcos y Marcos 2018, di Italo Testa

Il canto del disamore

Cosa rende il sentire, che attraversa L’indifferenza naturale di Italo Testa, così simile e nello stesso tempo così diverso dai lavori poetici e filosofici che sul tema dell’incuranza della natura hanno attraversato i secoli, da oriente a occidente? E quale indifferenza mettono a nudo i versi? I punti di vista che la declinano appaiono complessi, molteplici. A partire da un sentire soggettivo, che del tutto percepisce l’impermanere, tra precarietà, abbandoni e distacchi. E nel delineare, al suo opposto, una visione oggettiva della natura, colta nel ritmo ignoto del suo accadere, nella «vita che anonima fermenta». Per lasciare soprattutto emergere, dal loro incrocio, un pensiero che con il reale intreccia una relazione dinamica. Nei confronti di una natura da cui si è catturati e a cui ci si abbandona e che, nello stesso tempo, si concorre a determinare, quando «lo sguardo è lenta costruzione» e «la mente rumina le cose / le afferma nella sottrazione». Lo stesso sguardo che, insieme alla luce, concorre alla visione dei colori delle cose. La stessa luce chiara o rarefatta, cupa o sospesa che colma i versi, che perturba col suo nitore, che quando «ti ferisce è anche gioia».

Una luce che divarica i contrari. Quei contrari, insiti nell’in-differenza, che i versi lasciano fluire tra costruzione e abbandono, pienezza e sottrazione, storicità e anonimia, amore e disamore, presenza e assenza. Un’assenza, di cui tutto «immobilmente splende», a chiusura della raccolta, dopo che la mente ha completato la sua opera di sottrazione. Non prima però di aver attraversato le sue antinomie e, tra queste, due elementi naturali che si fanno emblemi. La barena, terreno lagunare sovrastato periodicamente dalle maree, che richiama le immagini del sommerso: l’occulto, l’assenza di forza vitale, la putredine, la decomposizione. E l’alianto, l’albero del cielo dalla crescita invasiva nelle aree incolte, che, al contrario, muove le visioni dell’emerso: il radicamento, la forza vitale, l’agguato, la ridondanza. In una natura oscillante nei suoi riflessi e rispecchiamenti, in cui la visione e il paesaggio, il sentire e il visibile mutano reciprocamente e gli opposti perdono i loro confini. Nella sospensione indefinita, spossata e sensuale, a cui ci si affida.

Da qui ci parla Italo Testa: «da questa indifferenza / che nel torpore consuma le cose». La parola, che si abbandona ad essa, trasforma la natura, ne fa continua metamorfosi. Come lo sguardo costruisce, mentre lo avvicina, l’oggetto della sua visione, la parola dà forma, andandovi incontro, al corpo del suo dire. Con una lingua di luce e insieme di marea. Entrambe altalenanti tra attrazione e noncuranza, perturbanza e distacco. Un’oscillazione che l’endecasillabo e il distico evidenziano. Nell’altalenìo del costruire e del sottrarre, dell’emerso e del sommerso, della meraviglia e del dolore. Dove lo sguardo disegna il suo oggetto, ma ne viene a sua volta definito. E la natura trova un ruolo attivo, non solo nell’artigliare le sue prede, ma anche nel farsi argine al disamore. E nel sollecitare, rispetto ad esso, la visione e la parola. Restituendo uno sguardo e una voce all’incuranza sottesa a tutta la raccolta: l’indifferenza umana. Colta anche nell’affiorare dei paesaggi urbani, dove il «carico d’angoscia risale il cavalcavia tra i tir incolonnati» e «l’anima è un biancore imbevuto di neon e aree industriali». Paesaggi dell’umano che si riflettono nelle acque di barena o vengono avviluppati dall’alianto. Metafore, entrambi, anche delle decomposizioni e del degrado contemporaneo. E possibilità, insieme, di rispecchiamento per la poesia. Ed è così che «la vita che punge», può riconoscere alla fine l’autore, «gli occhi mi ha aperto al canto / di tutto quello che non ho amato». Ed è così che il disamore si lascia invadere dalla luce. E dall’indifferenza fa germogliare la parola.

 

Da: BARENA

lo sguardo è lenta costruzione

brivida e traluce dai rami,

la lamina tenera del cuore

riveste il pensiero e l’azione.

il giorno è muta esposizione

alle intemperie e alla luce,

la mente rumina le cose

le afferma nella sottrazione.

 

codice stradale

ma il salice piegato a difesa dei container non ha istruito il giorno il suo carico d’angoscia risale il cavalcavia tra i tir incolonnati non conosce quest’attesa a corsie alternate se l’anima è un biancore imbevuto di neon e aree industriali rattrappite nella nebbia qui è sempre linea continua qui solo gli aironi possono testimoniare ogni sorpasso qui ruotare il becco a presidio della strada qui squalificare gli astanti il guardrail sfondato.

 

Pastura

folaghe e acqua, medaglie nel cielo,

lo stagno si oscura se chiudo gli occhi:

 

imbiancate dalla lana dei pioppi

le auto ondeggiano nella luce chiara:

 

la vita che ignota fermenta dai fossi

in un’onda di calore svapora:

 

gettato come pastura ai pesci

il sonno ci avvolge e impasta la bocca:

 

muti boccheggiamo alla rinfusa

come anguille nel fitto di una chiusa.

 

la lenza

 

guarda la vita che anonima fermenta

il ritmo uguale dei giorni senza meta:

 

da qui ti parlo, da questa indifferenza

che nel torpore consuma le cose:

 

le senti in aria, le gemme già esplose,

come chiaro e tremendo il verde incomba?

 

lo sguardo sbarrato, la bocca aperta,

l’incuria mi ha preso alla sua lenza.

 

Da: LUCE D’AILANTO

# 1

ailanti, alle vostre falci piego il capo,

a voi, ovunque arborescenti, ailanti

nel brillio del mattino mi consegno:

vi lascio correre sui bordi incolti

dietro le massicciate, addosso ai muri:

e nel trapestio dei pensieri, infestanti

mi confondete ai fiori, miei ailanti

 

# 2

ovunque insinuanti lame,

falci verdi degli ailanti

improvvise tra i carrubi

ondeggianti nell’aria

risalendo le terrazze

vegetali epidemie

flessuosi, infidi ailanti,

dinanzi a voi ritrovati

alle svolte del sentiero

come germi soffocanti

riemersi dal pensiero

 

# 5

ailanti, ora che senza voi le gemme

incrudeliscono e agguanta gli occhi

la vostra assenza nel verde esploso

sui bordi scoscesi delle strade

dov’è la ridondanza delle lame,

lo sciame che rigurgita dai fossi,

ancora spogli quando avanza il niente

nell’aria più lucida, e più demente.

 

Da: LA PREDA

 

guarda su di un’acqua ferma lo svolio

di uno stormo di rondini

il guizzo delle piume in controluce

guarda e con la mente nuda

senza più un pensiero pensa

 

a questo candore lucente

in cui mi incido

a questo splendore

a cui m’affido

 

ma mutando d’un colpo la rotta

lo stormo assorbito nell’ombra

ormai si confonde

con la superficie opaca

sul manto ferroso del lago

la luce d’un colpo dilegua

 

a questo splendore muto

che m’allontana

a questo terrore

che mi richiama

 

***

nient’altro che la luce sul muro bianco

in alto, e un’aria come di resa e congedo:

niente a che vedere con la furia del buio

e l’incongruità di una sedia sospesa

sopra un palo infiammato al tramonto:

e tu sei lì, a poco a poco ti cancelli

dal registro delle cose animate

a favore delle nuvole turchesi

di un faro insocievole nella luce verde,

a favore di niente che t’appartenga

che testimoni che siamo stati attesi:

così aspetti, e come stanno le cose

è questione che solo il vento dirime

quando cade e lascia udire sull’acqua

il colpo d’ala d’un gabbiano in picchiata,

il guizzo di terrore di una preda

uncinata dall’artiglio della vita.

 

Da: L’IMPERMANENTE

 

chi ha scoperto il disamore

e ha guardato nella pioggia

un acero, il globo acceso

nell’arancio autunnale,

 

chi sa di non aver amato

fuori espone il suo dolore

sui tuberi nel vaso

tra i bossi sul balcone,

 

ora che il verde lo ha invaso

all’inguine sente una fitta,

la lingua come una foglia

gocciola nella sua bocca.

***

ma la luce non avrei visto

se non avessi bruciato le carte

un giorno, uscendo per strada

ho sentito di essere nudo.

 

ma la folgore non mi ha colpito

ho continuato a camminare in silenzio

sulla piazza, già sterminata

al primo sguardo sarei caduto.

 

e la vita che punge nel vento

scorticandomi vi ha vendicato

quando gli occhi mi ha aperto al canto

di tutto quello che non ho amato.

***

l’impermanente, il filo che si perde,

l’ansia, la bava che cola alla bocca,

l’inapparente, l’acqua sulle foglie,

la trafittura che più non ci tocca;

era questo, e non è più nominabile,

iridescente, il manto d’apparenza:

la ghirlanda stesa, sul cuore immobile,

immobilmente splende dell’assenza.

 


Italo Testa (Castell’Arquato, 1972) vive a Milano. È cresciuto nella provincia emiliana, ha passato molti anni a Venezia e fatto studi nomadi tra Francoforte, Berlino, Parigi e Marsiglia. Tra i suoi libri di poesia: Tutto accade ovunque (Aragno, 2016), i camminatori (premio Ciampi – Valigie Rosse, 2013), La divisione della gioia (Transeuropa, 2010), Luce d’ailanto (in Poesia contemporanea. Decimo quaderno italiano, Marcos y Marcos, 2010) canti ostili (LietoColle, 2007), Biometrie (Manni, 2005), Gli aspri inganni (LietoColle, 2004). Dirige la rivista «L’Ulisse», è resident DJ su «Le parole e le cose» e collabora con altri litblog. Pubblica la rivista/poster «2x2» in collaborazione con l’Otis College di Los Angeles e l’ArtCenter College of Design di Pasadena, e cura per l’Accademia di Brera la collana di multipli non_identità e il laboratorio da>verso: transizioni arte-poesia. Saggista e traduttore, insegna filosofia teoretica all’Università di Parma.