Gregorio Tenti, "Dell’immensa disfatta"

 

Non sanno nulla dell'immensa disfatta verso cui vanno, ignari di se stessi, nel brusio monotono dei loro passi sempre più rapidi che li portano impersonalmente con un grande movimento immobile. (…) Ma la caduta è forse questo, il non poter più essere un destino personale, ma la sorte di ciascuno in tutti.

Maurice Blanchot

I.

dalle intestina ci stringiamo al sole, noi lo siamo tutto è interno a tutto
verosimilmente una solarità invernale che resiste nuda a occhio umano, l’alleanza o ancora quel calore
che si vede concrescere al sole ampio delle sue grinze. le costole partoriscono alle folle
le tribù dai polmoni pieni di carne tengono l’estinto stretto per le sue resine - e noi generosi e scoscesi restiamo assolti ad altro intendere, interni ad altro parlare: uno stesso fiato dice di noi, vicini; di sé, della voce.

quella tessitura quel perlaceo digitare sarà materia di queste terre, le strade e le occasioni, quando sarà finito, diranno solo della nostra sparizione ne saremo portati come acque
per le parti quiete e le altre gravità
che causano persone - e riposate corna imbiancate -
il corallo sordo lappa ogni precauzione
e tu la veneri in saggi frammenti
non sia però questo riflesso impugnato non sia nulla, nonostante tu sia
mosso nel sole, da quando
sai di essere cieco, non visto altrove.

la città ha dieci ali di meshnet su cui far correre altri desideri. la chela dell’aria ci dissemina.
i senza vento gridano dai territori giunturali il canto immobile delle api immobili.

 

II.

Spinoza ebbe un figlio dalle viscere del mondo dai suoi
piedi luminosi - quelle terre trapassate nel profondo
dalle navi senza ventre; punisci ora te ne prego
i fiumi che il silenzio ha fatto cosa sola con le loro
cuciture. potremo, come dolci navigazioni allora
essere della pelle del mare
potremo rendere al sole le nostre schiene arcuate
ad ogni messa in acqua mattutina. ora non
abbiamo mani per proseguire
i fili delle nostre dita, la cruda terra che occorre
alle narici, la Qasba il favo aberrante
siamo gusci che vivono. ma ad ogni poro
una pista senza destinazione, il calibro
di tutta una vita.
                    andiamo lungo le bianche
carcasse di eterno - e loro cantano all’unisono
della cecità sottratta
che l’amicizia prenda le condotte
che maceri gli antichi minatori, dicono. ora
il soccorso invade e non passa.

 

III.

un giorno saremo in superficie, lì le cose
vanno meglio. incontreremo
tutti i vicini assieme, il loro torace immenso
che si articola e non saremo soli
un giorno dovremo andare.

partiremo di buon’ora e arriveremo
senza che il sole cali. lasceremo le stanze
aperte e le pareti dei nostri bunker piovosi; ci sarà chiesto di
dimenticare, lo faremo… in macchina
mi chiederai di cosa vivremo.
potremo anche morire, lo sai,
ma sarà facile. resteremo.