n. 52, Uguale a zero

«Anterem» giugno 1996

Un segno noi siamo, privo di significato,
siamo senza dolore e abbiamo quasi
perduta la lingua nell’estraneo.
Hölderlin

Ah generazione dei mortali
uguale a zero
valuto la vostra vita.
Sofocle 

Parole liminari, situate là dove visibile e invisibile si sfiorano, dove luogo e non luogo sono tangenti. Immagini atopiche, irriducibili a paesaggi e cose che già hanno un nome. Parole e immagini che non si esauriscono in prossimità dell’inscrutabile.

La poesia sta in quel muoversi per piccoli barbagli luminosi, nell’innervarsi sempre diverso di forme in cui resta aperta la ferita del sentire originario ed è avvertibile il soffio della prima pronuncia.

Il limite è propriamente un velo. E l’altrove non è ciò che il velo lascia illusoriamente intravedere, bensì il non detto che si manifesta sul suo rovescio; dove muovono al dialogo sequenze verbali generatrici di un senso non preesistente. Qui il non riconosciuto può incontrare la sua forma.

In questo luogo liminare, valutato uguale a zero, il linguaggio fonda la sua struttura inaugurale di separazione; e apre al poeta la facoltà di occupare una posizione parlante, che, esponendosi alla possibilità di una risposta, impone l’ascolto.

Indica Nietzsche: «Guarda questa porta carraia… Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine».

La scrittura è definita dall’azione simultanea di due movimenti di verso opposto. Entrambi rivolti all’alterità e abitati dai segni di un collasso verificatosi nell’ordine. Entrambi situati su margini da sempre soggetti a profonda instabilità e per questo lasciati in ombra dalla direzione teleologica della storia.

È precisamente questa mancanza di fondamento che produce il manifestarsi di un senso mai pienamente presente, ma che si dà come differimento continuo, traccia.

Flavio Ermini