n. 61, Poros e Penìa

«Anterem» dicembre 2000

dove i corpi si mischiano, dove
si articolano e si parlano
imparano a parlare
toccandosi con le due mani
Faye

La mano porge e riceve, e non soltanto le cose, porge anche se stessa e se stessa riceve nell’altra mano.
Heidegger

È come un gioco con qualcosa che si sottrae, e un gioco assolutamente senza progetto né piano, non con ciò che può diventare nostro e identificarsi con noi, ma con qualcosa d’altro, sempre altro, sempre inaccessibile, sempre a venire. La carezza è l’attesa di questo avvenire puro, senza contenuto.
Levinas

Eros

In principio l’essere umano era l’uno e l’altro. «Noi fummo interi» dice Platone «e il desiderio dell’antica unità così come la sua ricerca ha per nome Eros».

Come ci viene presentato da Diotima nel Convito, quale daimon nato dall’unione tra Penía e Poros, Eros è mancanza, bisogno, insufficienza e nel medesimo tempo via, passo per accedere a ciò che non si possiede. È forza perpetuamente insoddisfatta e inquieta che occupa «il posto intermedio tra l’uno e l’altro estremo».

Corpo

Frontiera fisica che tiene fuori di sé l’altro, il corpo si configura come limite di pensabilità di tutti i sensi. È nella sintonia dell’incontro erotico che s’instaura un rapporto in cui il corpo si trasforma in transito dall’uno all’altro. In questo esodo è pensabile anche il movimento che porta verso l’altra parte di noi stessi, alla terra incognita (l’inexplicablemallarmeano) da cui un giorno ci siamo emancipati. Accade quando i corpi «si parlano» e la parola, destinandosi a un altro, impara la disciplina dell’ascolto.

Promesso a una forma, Eros è custodito «dove i corpi si mischiano», nella zona di confine tra il pensiero razionale che l’essere umano ha nel tempo articolato e la follia che in esso non ha mai cessato di tracciarsi. È il mediante che dalla scena porta all’impensato del linguaggio, dove la parola non è ancora asserzione, ma coappartenenza di presenza e assenza. Dove, precisa Umberto Galimberti, «i termini subiscono quello s-terminio che offre lo spettacolo dell’o-sceno». Pulsioni e desideri, sconvolgendo come significanti incontrollati le ordinate gerarchie dei significati, liberano ulteriorità di senso.

Parola

Non si dà parola se non liberando l’originaria follia. E ogni nuova parola è l’allarme percettivo del contenuto preverbale; fa segno dall’interno del dicibile all’unità preriflessiva e preconcettuale che ha preceduto il pensiero cosciente e razionale.

Se non fossimo stati scoperti dall’ombra che agiva in noi, quale parola senza soggetto parlante, non avremmo mai potuto inventare nulla. Come scrive Wallace Stevens: «La poesia deve resistere alla ragione con successo quasi completo».

Alla parola senza linguaggio si può accedere dunque non con le parole ordinate dell’Io, ma con il collasso dell’Io, infrangendo il divieto che esso pone all’irrompere incontrollato dell’Eros.

È l’incontro degli opposti insieme alla lacerazione che lo precede a venire in primo piano: una duplicità senza opposizione, che pur legando non sopprime i differenti e li lascia essere in pace. Come se l’accadimento avesse in serbo un pensiero che, là dove tutto manca, è ancora un ricordo o già un’attesa. È proprio nell’immagine di questa piega – propriamente una carezza – che il tra dell’Eros va pensato.

Carezza

Nella carezza, l’intenzione affidata alla mano – che «porge anche se stessa» – offre il dono di sé e sfugge a ogni controllo. Ogni carezza, quella spaziatura tra il desiderio e il compimento, diventa un enigma sia per chi la dà sia per chi la riceve. Il senso che abita la mano è sempre compromesso dal senso che scaturisce dal corpo dell’altro. Quel corpo che non si ha mai la sensazione di possedere anche quando lo si avvinghia.

È del vuoto che ci si innamora e non del pieno. Per questo il linguaggio dei poeti, che hanno sempre a che fare con l’inizialità del dire, sembra rubato al linguaggio degli amanti. Per questo la parola, come l’Eros, mette in gioco l’esposizione all’altro, l’esposizione a qualcosa che intende sottrarsi alle prospettive del senso finale.

Via di trasformazione e passaggio a un nuovo percorso interiore, Eros conduce a un sapere accessibile a chiunque non pretenda di dominare il pensiero, ma intenda lasciarlo avvenire e pensare. Indica precisamente l’impossibilità di un calcolo e di una padronanza.

Eros e parola

Nell’iscrizione della lingua poetica al tempo che precede la lingua, si fa più stretta la rispondenza tra il dire del poeta e la natura di Eros. Consentendo l’irriducibile compresenza del due-in-uno, Eros e parola rivelano l’essere umano nel suo statuto di intrinseca e originaria duplicità, nella sua impossibilità di essere soltanto uno.

E così, per la sua capacità di pensare e dire se stessa come altro, la parola poetica ci interpella da una profonda relazione tra i sensi e la lingua, tra il movimento del corpo e il verso, tra il brusio mentale e l’ordine visibile sulla carta.

Il suo senso non è accessibile se non con un pensiero confusivo, capace di mettere assieme gli opposti, tanto da corrispondere al silenzio quando si destina al nome: momento di esperienza , etico, prima che conoscitivo.

L’inexplicable che Poros e Penía dispiegano è già la nostra instabile e provvisoria dimora. Dietro di sé non ha il verbum divino, ma l’ingenssylva dello stato demonico arcaico. Lo ricorda Gabriella Drudi: «Noi non siamo soli al mondo – e gli animali che ci portiamo dentro possono sempre divorarci o leccarci la mano».

Flavio Ermini