n. 87, Nel pericolo del dire

Wo aber Gefahr ist, wächst
das Rettende auch.
Hölderlin

Arduo è cercare l’essenza dell’essere là dove la terra è creduta salda, dove la parola sembra unire essere e verità. È invece possibile che la parola si raccordi pienamente con l’essere proprio là dove s’interrompe l’ordine del linguaggio, quando si apre una crepa nella frase, propriamente: nel pericolo del dire.
Quando la parola spinge a distogliere lo sguardo dalla diritta via, solo allora produce uno smarrimento che fa pensare alla sua originaria condizione poetica. Quando accade, scopriamo vie interrotte, evitate fino a un attimo prima; scopriamo che a ogni interruzione nuovi percorsi invitano al cammino; siamo indotti ad assecondare i tracciati di una logica consequenziale messa continuamente sotto-sopra da sussulti altalenanti. In questo cammino accidentato e incerto – quale si configura in questo numero di “Anterem” – si muovono i nostri passi.
Molteplici sono i sentieri verbali sui quali possiamo avanzare. In ogni caso, scegliere di seguire le dinamiche poetiche della parola significa prendere posizione per il pericolo.
Le vie della scrittura rappresentano una geografia senza carte. Talora basta deviare di poco perché muti il paesaggio e la storia abbia un seguito imprevisto. Altre volte la parola poetica non dà vita nemmeno a quella geografia. Lascia irrappresentate alle sue spalle le terre sconosciute che attraversa. Il suo racconto non esclude che altri possano rifare il suo stesso viaggio come se fossero i primi. La via è ogni volta nuova.
E il punto di arrivo? Affinché la direzione si riveli come la direzione corretta da seguire, non può mettere in conto la salvezza; non deve avere approdo; deve costituire un viaggio interminabile. Se fosse anche solo prevista, la fine del viaggio coinciderebbe con la fine del nostro fare, con la fine della ricerca. Ha ragione Vincenzo Vitiello a definire «umano, troppo umano» il distico di Hölderlin: «Ma dov’è il pericolo, cresce / anche ciò che salva» e a proporne il rovesciamento: «Dov’è ciò che salva, là cresce il pericolo» (cfr. “Anterem” 86).
La via che segue la parola poetica non è la via della conquista, ma, al contrario, la via dell’identità. Il cammino non serve a fornire una conoscenza dei luoghi, ma a dare un nome a chi è in cammino.
Ciò vale anche per la verità. È per renderla pronunciabile che dobbiamo rinunciare a possederla. Ben sapendo che, solo se la verità resterà sempre a-venire, sarà possibile sopportare ciò che di tremendo in essa si cela.
Con la parola tutte le vie si aprono, ma soltanto per richiudersi alle nostre spalle; tutte le vie si confondono, e senza lasciare tracce. Tutte le vie si perdono nell’oblio. Il paesaggio è in perenne sconvolgimento. Niente resta sempre se stesso, né, cambiando, torna poi uguale.
Non possiamo che tracciare una via ulteriore. Scrivere dopo la fine del tempo, per un tempo senza generazione: il tempo che passa senza lasciare niente dietro di sé.
Noi pronunciamo il nostro sì al dire e consentiamo così che il dire abbia luogo. Acconsentendo all’aver luogo del dire, determiniamo che, nell’esperienza della scrittura, si apra a noi l’esperienza abissale dell’essere.
La scrittura è percorsa da una grande ambizione che la rende impervia e come sospesa continuamente sul vuoto del non detto, del già detto, dell’impossibile a dirsi.
Bisogna dimostrarsi all’altezza di ciò che, in un continuo frantumarsi e incessante moltiplicarsi, si nega allo sguardo. Il dire deve accadere per quello che è: vuoto, spaccatura, crepa, lacuna; ma al tempo stesso: contorno, margine, limite, seppure parziale, seppure ogni volta bisognoso di una nuova definizione.
Il punto di partenza non è il dire paradisiaco, ma l’inferno di questo dire, dove l’interrogazione si fa sempre più stringente. È un’interrogazione interminabile, inchiudibile: ci destina a un’erranza senza sosta, a continue deviazioni.
Va preso atto che la parola non è un possesso personale. Va lasciato tempo e spazio alla parola da dire, fino a essere liberi di ascoltarne le domande e, senza alcuna gerarchia, rispondere.
Scrivere, prestando attenzione a qualcosa che non tutti vedono, al prezzo di perdere di vista quello che vedono tutti. Scrivere, facendo cenno all’invisibile: scrivere perché ciò che non si vede e resta nascosto possa essere partecipato, pur lasciandolo nella sua invisibilità.
Questo modo di consentire all’esperienza della scrittura non è possibile senza una discesa nei pozzi dell’anima, che sono i pozzi dove, chini su noi stessi, ci specchiamo. Qui ogni parola lascia che la conoscenza di ciò che si rivela prenda piede in noi. Allora l’invisibile e il vicino si confondono, l’altrove è ovunque, il centro sembra a due passi da noi. L’invisibile resta nascosto nel visibile, sempre a portata di sguardo. È un continuo scendere e salire per la scala, ma senza mai poterne toccare gli estremi: senza raggiungere il cielo, senza mai potersi soffermare a lungo nelle profondità dell’antro.
È tempo di avanzare. Avanzare: dopo aver sperimentato l’esilio assoluto, dopo aver attraversato quanto è straniero alla scrittura. Avanzare: dirigersi alfine verso ciò che del dire è proprio: l’impossibilità del dire, nel pericolo del dire.

Flavio Ermini