n. 74, Anacrusi

“Anterem” giugno 2007


L’anacrusi, presso i greci, è senz’altro un semplice preludio, per esempio quello della lira. Ma in alcuni esempi del diciannovesimo secolo si complica…
L’anacrusi. Non una parola, appena un mormorio, appena un fremito, meno del silenzio, meno dell’abisso del vuoto; la pienezza del vuoto, qualcosa che non si può far tacere, che occupa la totalità dello spazio, l’ininterrotto, l’incessante, un fremito e già un mormorio, non un mormorio ma una parola, e non una parola qualsiasi, ma una parola chiara, giusta, alla mia portata.


Blanchot


La parola poetica trattiene due movimenti. Uno è discendente, e propone il passaggio dalla presenza all’allontanamento. L’altro è ascendente, e impone l’apparizione.
Fra questi due opposti, dove niente aderisce al canone della fissità, il poeta coglie il momento ontico primordiale.
Il poeta regredisce al nucleo profondo della convulsione materica e investe il momento antepredicativo delle archai, dove la temporalità acquisisce la sua potenza originaria.

L’onda creativa che ci porta all’essere è preceduta da quella oscura della cancellazione. Vuoti e spegnimento sono destinati a capovolgersi in energie e forme, che a loro volta si fanno produttrici di altre assenze.
Il legame tra silenzio e parola è inscindibile e ci fa apprendere quanto sia breve il volo terreno.
Siamo osservatori e costruttori di uno spettacolo che, inciso su una mappa albale, ci fa misurare tutto il valore della nostra fugacità.

La parola e il silenzio, così come il segno e il vuoto, sono strettamente connessi nell’anacrusi. L’incontro fra due elementi che ordinariamente si trovano distinti sottolinea come tra la percezione e la sua traduzione in parola e segno non vi sia mai sicura concordanza.
I segni formano una sorta di parasele intorno al vuoto. Quel vuoto indica anche lo spazio liberato, il tempo che attende una nuova pronuncia, il luogo dove il futuro potrà insediarsi con altre leggi: quasi un desiderio di ridurre a respiro terrestre ogni trascendenza.

Un varco si apre dentro il nucleo del più profondo ammutolire e si manifesta come genesi di pensiero e avventura di parole che ci parlano di ritorno, riapparizione, nascita.
La parola fa da unione fra i diversi modi di essere delle cose, che la nostra emozione va stringendo nelle sue reti. Tali presenze, appena chiamate a entrare in un tenue grado di vita, cercano l’ansa dove tramutarsi nella migliore trascrizione di se stesse.

Il vuoto. Questo concetto è al centro dell’operatività dell’artista, il quale con l’anacrusi si trova di fronte al rischio del primo volo, al vuoto da attraversare per congiungersi alla leggerezza di una forma.

Il silenzio. Il persistere del silenzio e il transitare nella parola si compenetrano intimamente in un possente movimento endogeno.
La parola è l’ascendere di una forza vitale da inesplorabili profondità. Il grido che la segue è il segno dell’apparizione e della consistenza: il ripetersi dell’evento della nominazione.
Questo controtempo che va materiandosi attesta l’importanza del pensiero capace di non smarrirsi davanti all’enigma di un cammino da un luogo seminale a un luogo di piena manifestazione.
L’essere creaturale è qui rappresentato nel suo stadio compiuto: quello del suo entrare nell’ombra per rendersi riconoscibile.

Nelle scritture raccolte in questo numero di “Anterem”  la parola è colta nell’attimo in cui l’involucro protettivo si spezza. Il silenzio involgente cede e ci restituisce a un movimento inarrestabile che torna a narrare la vicenda della nascita.
Una creatura entra nelle maglie di un destino e comincia a conoscere la strada che la porterà a tracciare l’arco della sua scalata verso la compiutezza e poi verso il declino.

In queste scritture si fa cenno al viaggio verso le oscurità ctonie, verso tutto ciò che si colloca dopo il limite della temporalità. Si va allora dalla definizione dell’essere al suo seme iniziale. Dai gradini del tempo all’atemporalità.

La figura intravista nel movimento dell’anacrusi diventa il simbolo di ogni presenza terrestre. Incarna l’idea di silenzio diventando voce, nome, bisogno, piacere, dolore.
Astrazione e materialità trovano così un raccordo indissolubile. L’una non esclude l’altra; anzi l’una è dall’altra chiamata entro quella vivente unità che nega il principio di non contraddizione.

In ognuna di queste scritture c’è un tratto in cui la pronuncia e il pensiero si compenetrano. Qui lo sguardo deve posarsi: nel fuggevole spazio posto fra l’incrinarsi del rivestimento e quella sottile pelle che preme per liberarsi: fra il tempo del mondo e il tempo soggettivo.

L’atto di preludere – su cui fa presa, nella durezza del silenzio e del vuoto, il vocabolo “anacrusi” – è l’esperienza inaugurale sulla quale convergono i testi proposti da “Anterem”.
Nell’intervallo fra un prima occultato e un dopo appena visibile sta il loro senso.

Flavio Ermini