n. 59, Endiadi

«Anterem» dicembre 1999

Non intendono come da sé discordando con sé concordi.
Eraclito 

Due, sì, sono in due.
Sembra perfettamente naturale ora –
Plath

E credi tu che uno ..., sano di mente o pazzo che sia, abbia
il coraggio di dire sul serio a se stesso, con l’intenzione
di persuadersene, che necessariamente ... il due è uno?
Teeteto

Endiadi, hén diá dyóin, uno per mezzo di due: non una generica ambiguità, ma l’«endiadi», la vera e propria irriducibile compresenza del due-in-uno.

S’impone, con questa figura della duplicità, la controversa questione sul senso che nel testo si articola quando nella parola viene ripristinata l’inaugurale coappartenenza tra voce e silenzio, mantenendo ferma la differenza che il mondo, costituendosi in categorie, sopprime. Ciò che gli uomini non intendono, ci dice Eraclito, è il coincidere degli opposti. Per loro ciò che diverge non può nel medesimo tempo convergere. In realtà, la parola poetica concorda con se stessa proprio mentre da se stessa discorda. E ce lo dimostra conducendoci proprio dove i contrari sono complementari e gli opposti si richiamano. Dove l’uno contiene in sé anche il suo contrario ed è un’endiadi.

Portarsi all’origine di questa lacerazione significa esattamente cogliere la coscienza umana al suo sorgere, il formarsi dell’essere come custode della differenza. Fino a riconoscere l’Altro da sé e mantenerlo nella sua alterità, ottenendo dall’opposizione un accordo.

Ma com’è pensabile l’armonia dei differenti? e, insieme, il doppio sguardo che implica il loro confinare?

Oggi la poesia è assenso all’essere attraversato dal silenzio. E proprio di quel silenzio – in cammino verso il senso – costituisce una rivelazione.

La sua avventura si svolge tra gli estremi di un pendolo, la cui aporeticità è data dal richiamo dell’uno all’altro, suo volto speculare, confine di un dualismo costitutivo e massima distanza. Per questo implica un rispondere e un corrispondere: chi ascolta è chiamato.

La ricerca che incrocia l’arco vario e mutevole di tanti saperi, riunendo ciò che pare essenziale alla questione letteraria, indica nell’alleanza tra parola poetica e parola cognitiva una strada percorribile per la nostra esperienza di pensiero.

Ma ulteriori e decisivi spostamenti vanno compiuti. Utili per introdurci in una tonalità poetica complessa e rischiosa. In una pratica della scrittura di cui non è agevole immaginare i contorni e gli esiti. In rapporto all’Altro, ma soprattutto rispetto al silenzio da cui l’Altro proviene.

Il doppio sguardo a cui ci induce l’originaria e ineliminabile duplicità della parola impone uno scrivere altrimenti che della parola sconvolga i margini, alteri i limiti e mostri le irrisolte contraddizioni. Uno scrivere che si volga alla produzione di segni di nascondimento, dove la parola produca i termini del silenzio da cui trae origine.

Il cammino di pensiero che cerca di esporsi da se stesso sull’orlo dell’enigmaticità, e di corrispondere all’evento della risposta come evento sempre originario, è ancora lungo. Ma cominciamo intanto a prendere distanza da una fisica del puro sentire e del mero pensare. Nella consapevolezza che non vada confusa la kantiana «assenza di finalità» della letteratura con l’assenza di «responsabilità». Responsabilità che va cercata nell’altrimenti di una scrittura che non proceda pietrificando le cose nei concetti e nelle idee. E che si faccia carico di un compito non più solo estetico, ma anche etico. Che concepisca la «duplicità» – quell’inaugurale convertibilità di presenza e assenza, essere e nulla, bene e male, che è la libertà – senza la sopraffazione di un potere. Ed elabori un pensiero che oltre il potere sia pensabile, e sia rivolto alla verità dell’uomo, del suo essere al mondo, del mondo stesso.

Flavio Ermini