n. 86, Dire l’essere

Qui non parlo della bellezza, e delle altre “perfezioni”
che gli uomini hanno voluto chiamare perfezioni per
superstizione e ignoranza, ma intendo per perfezione
solo l’essere.

Spinoza

In questo numero di “Anterem” ci troviamo di fronte a un interrogante risalire verso il senso iniziale dell’essere, mediante successivi smantellamenti della soggettività e del suo accumulo di velamenti.
I testi dei poeti e dei pensatori qui convocati manifestano che nel dire si fa presente l’essere dal cui senso siamo determinati. Sottolineano che il nostro compito
consiste nel pensare l’essere nella sua essenza, evitando di sottometterlo al nostro sentire.
Il cammino tracciato mostra come sia possibile restituire alla parola la proprietà di parola pensante-interrogante e impone una questione capitale: è possibile muovere verso l’essere senza tradirlo?

L’esistente incontra e riconosce l’essere nell’attimo risolutivo in cui l’umano e la parola si rapportano in modo autentico, cioè poeticamente. È nella poesia che la parola “essere” si raccorda all’essere in quanto tale.
A questo proposito, va ricordata la grande rivoluzione avvenuta tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, quando il percorso romantico alla volta dell’interiorità diventa un cammino verso l’essere stesso: un passo che impone la dissolvenza del soggetto per giungere a quell’essere cui l’esistente già da sempre appartiene.
Il testo da questo momento non è più qualcosa che esprime o viene espresso, ma è qualcosa che finalmente è soltanto senso. È un processo inaugurato da Hölderlin molti anni prima, quando con la sua poesia si era portato nei pressi dell’originario legame tra esistente ed essere senza interferire con un’atmosfera soggettiva.

Prima di chiunque altro – prima di Nietzsche, prima di Heidegger – Hölderlin riconosce e dispiega “la domanda iniziale dei greci”: la domanda sul Da-Sein, sulla sua apertura all’essere dell’inizio.
Quando il poeta di Mnemosyne prende la parola, la soggettività lirica viene spazzata via: è l’essere a parlare.
Con Hölderlin, il sentire esclusivo dell’autore viene messo fuori gioco ed entra prepotentemente in scena un sentire liberato, che si manifesta come lo spazio dell’esperienza in cui l’essere si mostra.
Da questo momento l’atto letterario autentico è senza autore, non è riconducibile a una soggettività singolare. La sua apertura è universale e la sua concretezza consiste nell’esser-lì puramente come linguaggio.

Il progetto è ambizioso: rimuovere dall’essere in sé le prese temerarie dell’intelletto; allontanare l’essere da ogni illusione possessiva; affidarlo a una sensibilità depurata dalla vanitas e dall’inerzia. Il nostro compito pare proprio che consista nel pensare l’impensabile dell’essere (ovvero l’essere nella sua essenza) senza sottometterlo ad alcuna ipostasi.

Attraverso tale percorso – in assenza di soggetto – si fa strada un principio aurorale sconosciuto all’“interiorità”, rinchiusa com’è nel corpo. Attraverso tale percorso la lingua non designa le cose, bensì esse vi appaiono: la lingua si costituisce come lo spazio in cui le cose si presentano come cose; tanto da costituirsi come esperienza poetica del farsi e del disfarsi dell’intreccio dell’essere.
Per questo possiamo enunciare che nel dire si svela l’essenza stessa dell’essere.

Il dire rifugge da qualunque esito definitorio: lascia emergere l’essere rimettendolo in collegamento con l’origine e lo espone alla sua pura determinabilità.
Quando l’essere sorge, il sensibile è già alle sue spalle. In questo spettacolo dell’essere, l’esistente è chiamato a prendere posto, a esserci: ovvero a stare in una determinata disposizione emotiva, al sentirvisi situato imponendo l’idea che le passioni, le affezioni, la sensibilità siano costitutive dell’uomo, allo stesso titolo della ragione.
Ecco perché il dire può essere invocato per affermare l’unità originaria delle facoltà dell’animo umano. Ecco perché all’avvento di tale unità gli usuali impianti critici sono per tanta parte scalzati. Il fine è volgersi all’essere e, in un silenzioso fare-spazio, accogliere dell’essere l’essenza.

Noi non abbiamo venti, cinquanta, settant’anni. Questo calcolare ci indica solo quel che siamo in apparenza. Noi siamo arcaici, apparteniamo al principio e a questo principio siamo ancora in grado di guardare se solo prendiamo atto che un’opera letteraria non è il prodotto di un individuo “particolarmente dotato”, bensì l’incursione di un’esistenza nello spazio aperto dell’essere.
Per accedervi l’uomo deve privarsi della propria volontà, proprio come lo era in principio, quando non era questo uomo qui o quello là, determinato nel dove e nel quando.

Nella sua struttura, l’esistenza umana è originaria apertura al mondo quale suo orizzonte costitutivo. Non è dunque qualcosa che prima è isolata in sé e poi si aggiunge al mondo. È «l’essere-nel-mondo», come sottolinea Heidegger. L’esserci fin dal principio. Quell’essere che impone ora di opporsi alla cata-strofe: contro la lacerazione dell’esistenza, contro l’allontanamento dell’uomo da se stesso e dalla pienezza originaria, contro la stolta mancanza di rispetto per la natura.

Se uomo e natura si toccano «in pura vita», come sostiene Hölderlin, ecco che l’uomo risplende tra gli elementi. Infatti lo scambio d’essenza con la physis lo rende armonico, tanto che la natura, sottolinea Leopardi, «parla dentro di lui e per la sua bocca».
Non lui parla, dunque, ma è la natura che, de-soggettivizzata, dice se stessa.
Se uomo e natura si toccano, diventano accessibili i confini della terra e si fa pensabile l’antiterra di cui ci parlano i pitagorici, dove l’umbratilità non è più radice di errore; dove irreparabile è soltanto la frattura tra l’ombra e la facoltà fantastica.

Va compiuta fino in fondo l’esperienza poetica che, intonandosi sull’essere e con l’essere, riconosce nell’essere temporalità, vita vivente, invecchiamento e declino, facendosi carico di quel che la filosofia non è più in grado di sopportare. La parola poetica sfugge talvolta allo sviluppo lineare del pensiero. Ecco perché da dentro il discorso sovente riesce a dire quello che il discorso tace.

Insomma, “Anterem” sta lì a indicare che la letteratura non ha altro compito che portare alla luce del pensiero l’essere nella sua essenza: questo essere che il tempo consuma e rovina, ma cui l’eternità sarebbe probabilmente insopportabile, così come lo sono le illusioni che a essa conducono.

Flavio Ermini