n. 77, Forme di vita

Versione stampabilePDF version
E immaginare un linguaggio significa immaginare una forma di vita.
Wittgenstein

Nella poesia viene alla pronuncia la physis nel suo fiorire: quella “natura” che si nasconde fuori dalla storia, ma prima e a suo fondamento: nel tempo originario.
Questa dislocazione produce nella parola una rottura, un cambiare rotta, in un vero e proprio manifestarsi del luogo che ci è proprio e che ci rende propri.

È un cammino verso la vita e si lascia indietro ogni consuetudine e certezza; conduce verso l’ignoto e l’estraneo; consente d’immaginare un altro luogo: un fuori che impone di obbedire al proprio respiro.
Qui, ciascuno non è più se stesso e insieme il suo negativo, ma se stesso soltanto quale negativo di sé: la natura stessa.

Il dentro e il fuori della vita non possono essere separati: agiscono nella parola, sono la parola stessa, dove il fuori è travagliato dal dentro e il dentro è fessurato, aperto al fuori.

Al poeta accade come a Ewald Tragy che «aspetta ancora mezz’ora, ma la vita non arriva. Allora si alza lui e decide di andarle incontro». Per questo si dice che il poeta abita quel luogo atopico, quel “tra” che dissesta e conduce in un altrove: nella vita in cui già da sempre siamo.

Osserva Celan: «La poesia non s’impone più, si espone», tanto che il proprio
viene compreso a partire dall’estraneo, e l’estraneo – ciò che incessantemente apre all’apparire – può essere percepito e raggiunto mediante la parola: dalla parola ricava forma e verità.

La poesia «si espone» al sentire prelinguistico, quel sentire che ci manca e ci spinge al dire per ritrovarci. In questo processo le parole sfuggono al dominio del concettuale e delle categorie; interrompono l’infinito intrattenimento della lingua; si pongono in relazione con il forire della physis.

Annuncia Hölderlin: «Sovente allora chi interrogò il suo cuore / dice di quella vita che genera parola». Dire la vita, dunque, è scoprire in sé l’alterità e il suo interminabile affiorare.
Ma come portare a parola la materia nuda e silenziosa che si agita al fondo della
nostra vita?

Va corretta la convenzione che considera il poeta come produttore e detentore del dire. È ormai chiaro che la responsabilità della parola si fa presente solo sulla soglia di qualcosa che può essere atteso, e unicamente quando su questo “tra” non viene esercitata dall’autore alcuna forma di dominio, d’imposizione.
Prima di domandare, noi siamo dalla vita domandati e ad essa dobbiamo corrispondere, perché sulla nostra risposta si fonderà la nostra essenza.

L’esperienza poetica del pensiero non sta nel contemplare, nel vedere, nel conoscere, ma nell’esposizione all’ascolto. Qui, solo in apparenza c’è in gioco esclusivamente la poesia.

Arrischiandosi nel mondo prelinguistico, il corpo scrivente accosta la vita a qualcosa di principiale: la notte dei tempi che continuamente viene, dopo ogni giorno, con la notte.
«Una belva preesistente all’uomo preesiste sotto lo status quo ante ontologico» ci avverte Quignard. Sotto lo stato presente dell’ordine vi è un tempo indefinito e indeclinabile di vita. È il perduto che solo nelle parole si rianima.
Un fuori dal tempo dà tempo a una forma di vita originaria.

La parola poetica fa segno all’oscuro che precede la nascita e che accompagna in ogni momento la vita. Ci induce al gesto di disvelare; possiede una misura di dire le cose che le preserva, le lascia essere nel loro essere e dicendole crea in sé un analogo di ciò che le cose sono.

In questo processo accade sostanzialmente un ritorno della parola a se stessa quale cosa. Non segno, ma luogo di un apparire: una fonte, un prima che – sempre oltre – incessantemente viene alla vista dalle profondità ctonie della terra.

La poesia conferma che non c’è mai stata una qualche mattina nella nostra sera.
Nemmeno ciò che è originario appartiene alla luce. Solo l’illusione, denuncia Nietzsche, «fa credere che al principio di tutte le cose si trovi il più perfetto e il più essenziale».

Il dire poetico porta ogni volta il pensiero a quell’inizialità del dire dove la lingua vive ancora la drammaticità di un conflitto che la contrappone a se stessa.
Ed è ravvisabile nelle “forme di vita” che trovano spazio sul n. 77 di “Anterem”,
in questi segni contrastati che, nel loro sembrare campo di battaglia, si costituiscono come un oscuro e insopprimibile tratto costitutivo della vita, un modo d’intendere che trasforma.

Flavio Ermini