Tiziana Colusso, prosa inedita "Nutrimenti. Fusioni. Nascite", nota di Flavio Ermini

Racconto epistolare

Generalmente chi scrive ama il rimando da una parola all’altra, di voce in voce, senza portarsi mai a contatto con i segni arginanti esterni. Non è così per Tiziana Colusso, cosciente com’è che fermarsi a questo reticolato verbale significherebbe aver pensato troppo poco e inadeguatamente il rapporto tra il dire e la cosa.

«Dovremmo trovare il modo di sostenere più a lungo lo sguardo sulle cose» riflette Tiziana Colusso, ed è una riflessione che è segnata da un’insuperabile necessità: cogliere gli avvenimenti, i contesti, gli incontri e le opposizioni della propria vita come una sorta di chiamata da parte dell’essenza nascosta – ma al tempo stesso inevitabile e impellente – del mondo. È un mettersi in gioco nei confronti della scrittura da una parte e rispetto agli accadimenti della vita dall’altra. Ciò determina una scelta radicale riguardo alla percorribilità o meno di certe strade: la forma epistolare della narrazione, il minuzioso racconto dei sogni, la dialettica mai deposta tra materia vivente e materia inerte.

Ciò che Tiziana Colusso scrive riguarda di fatto la nostra condizione e il nostro destino. Dice qualcosa di essenziale per noi. Dice che grande importanza ha il passaggio dallo stato di veglia alla dimensione onirica e che in questo passaggio va prestata grande attenzione al precipitare della parola nel non-detto.

 


Nutrimenti. Fusioni. Nascite. Ma la scrittura è una creazione o una creatura?

Cara amica, i nostri pensieri non sono mai puri. Dovremmo concentrarci, scolpire le parole ad una ad una, fino a farle vibrare. Ad un certo punto la forma si disfa e tutto eternamente ricomincia. Dovremmo trovare il modo di sostenere più a lungo lo sguardo sulle cose, sulla loro luce. La luce della rabbia è una luce elettrica, di forma netta, trascina con sé onde di detriti, polvere, cellule morte. La guerra è una luce artificiale, non vibra, forte nella sua immobilità. La luce viva la si incontra sui volti, attorno alle rughe, alle smorfie, l’ombra sulla guancia appena rosata. La luce dei volti è generata da soli interiori, che quando si spengono fanno crollare gli zigomi e gli angoli della bocca come impalcature.

A volte mi sembra che scrivere renda simili a quelle stelline fluorescenti che vendono nelle cartolerie, che durante il giorno assorbono luce solare e poi di notte la cedono a poco a poco sotto forma di una luminescenza fredda, come quella un minuscolo neon, e priva di ombra.

Ho generato bambini solo nei sogni. Una volta ho sognato di avere una bambina appena nata, attaccata al seno. Insieme a me c’erano F. - il quale non era soddisfatto di questa figlia perché eravamo poveri ed inseguiti dalla polizia e diceva che la bambina mi succhiava tutto il nutrimento - e M.T ed S., i quali mi davano consigli sull’orario delle poppate. Io credevo che la bambina dovesse mangiare solo una volta al giorno. Ricordo la sensazione piacevole di mia figlia attaccata al seno: un’impressione molto vivida, nonostante la situazione del sogno fosse tutt’altro che tranquilla.

Un’altra volta ho sognato di avere una bambina piccola e di fuggire con lei e mia suocera da mio marito che ci inseguiva, chissà perché. Io ero una madre distratta, che spesso si scordava dell’esistenza di questa figlia ma poi rimediava con slanci di affetto. Finivamo per rifugiarci in uno strano bar sotterraneo che poi scoprivamo essere un bordello. Atmosfera calda e ovattata, con camere disordinate ingombre di biancheria. Ci sedevamo nel salone della casa indossando solo la biancheria intima e la vestaglia, di fronte a noi alcuni ragazzi esaminavano le donne in offerta, io non sapevo dove tenere la bambina, non volevo lasciarla nelle stanze ma non potevo nemmeno tenerla con me in quella vetrina, che però era confortevole, un rifugio nella notte fredda. La suocera aveva preso la situazione con ironia e stava lì sul divano sotto gli sguardi degli uomini, dicendomi sottovoce "Però guarda che se lui ci trova qui ci ammazza sul serio!"

Di nuovo un sogno con un bambino piccolo, un neonato, che io dimenticavo di nutrire. Le circostanze del sogno sono svanite, ma ricordo che mi trovavo con altra gente e tornavamo a casa di corsa perché io mi accorgevo di non avere dato da mangiare al bambino per troppo tempo. Ricordo che entrando in camera da letto trovavo sul letto grande, sfatto, dei gatti addormentati e poi, su una coperta, il bambino, che nutrivo a seno. La paura mangia l’anima, diceva Fassbinder. E l’anima, cosa mangia?

Sogno di Aurelia. Voci, pesci affamati intorno al pane, si avvicinano ad un nucleo di luce che vibra appena sotto il pelo dell’acqua: quella luce è lei. Le voci-pesci discutono intorno a lei, le voci vicine si sporgono a guardare e si allontanano con uno scatto pauroso della coda quando lei muove la testa o digrigna i denti in risposta a voci cupe come ombre, che salgono dal fondo e si distinguono dalle altre per certi pungiglioni urticanti e la persistenza della loro ombra.

Mi risveglio da un sogno con un’orribile sensazione di soffocamento. Il luogo del sogno è una piscina affollata. Un uomo fa nuotare con infinito amore e con pazienza una sorta di fantoccetto alto non più di un palmo, senza braccia né gambe e con due alucce atrofiche sulle spalle. E’ sua figlia, con l’evidenza folgorante del sogno. La appoggia sul pelo dell’acqua e la bambola - che è in realtà è un pupazzo di forma indefinibile - scende verso il fondo della piscina. Lui si tuffa e la riporta a galla. Intanto una persona nuota da un bordo all’altro della piscina, e ad un certo punto una bambina cerca per scherzo di soffocarla, mettendole la mano sulla testa in modo da farla restare sotto il pelo dell’acqua. Lei le morde un dito, con forza. Si sente

scricchiolare l’osso sotto i denti. Poi il ricordo torna ancora al bagnetto del fantoccio e di suo padre. Molte persone assistono alla scena, intenerite da tanto amore nei confronti di un esserino così deforme. Il padre la deposita sull’acqua e le chiede se ha paura di andare giù. La bambina-fantoccio, con una voce saggia e pacata, risponde "no se scendi pure tu". Il padre ricomincia a tuffarsi, a prenderla e riportarla su. Fino a che in una discesa il fantoccio si incastra nella vegetazione corallina del fondale. Il padre, facendo attenzione a non rovinare le alucce, la riprende: niente panico. Il panico comincia quando si dà la spinta per risalire ed è troppo corta. Scende nuovamente sul fondo per darsi un’altra spinta, più forte, ma l’aria nei suoi polmoni si sta esaurendo. La vedo dal basso risalire a siluro, uscendo dall’acqua sotto la spinta del panico, questo stesso panico che mi fa svegliare di colpo.

In una mostra sulla Cina a Venezia, ho sostato a lungo di fronte ai corredi funebri antichi, che riproponevano una riproduzione perfetta del mondo reale, compresa una moneta coniata appositamente, una moneta in bronzo o ceramica destinata alla "circolazione nel mondo sotterraneo". Questo simulacro di realtà è insieme angosciante e consolatorio: proprio come la scrittura. Nella mia scrittura, ricorrenza quasi ossessiva della dialettica tra materia vivente e materia inerte.

La luce va via a causa del temporale, rimane acceso solo lo schermo del mio computer, che risalta nel buio come un oggetto totemico. Accendo una candela, per bilanciare le luce azzurrognola e fredda con una fiammella calda. La gatta, terrorizzata dal fuoco, scappa dietro alla cassapanca. Il ragazzo che me l’ha regalata mi ha raccontato che la gatta ha avuto una vita travagliata, tra le varie disavventure è anche scampata ad un incendio. Gattina, ti dedico un verso bellissimo di Ingeborg Bachmann. Ora al buio sarebbe complicato ritrovare il libro nel soppalco. Ti dovrai accontentare di una citazione a memoria: "Vedo la salamandra attraversare tutti i fuochi, e tuttavia...". E tuttavia?

Sequenze di parole dotate di alto tasso di informazione, come quelle dei giornali. Oppure le parole anodine della comunicazione quotidiana, familiare, che hanno il loro vero significato in un’eterna partita a scacchi emotiva che si gioca sotto e attraverso le parole. Per avere ancora voglia di scrivere si devono trovare parole dense, che salgono alla superficie da una riserva situata in un altro tempo, in un altro luogo. Altrove, altrimenti. Parole magiche: nel senso proprio del termine, dotate cioè di potere evocativo e non informativo. Parole-miracolo, nel senso in cui Wittgenstein usa questa espressione in "Lezioni e conversazioni": "E ora descriverò l’esperienza di meravigliarsi per l’esistenza del mondo, dicendo: è l’esperienza di vedere il mondo come un miracolo"

Ospite in una casa con camino, passo molte ore ad accendere e ravvivare il fuoco. Quest’attività è diventata la scansione della scrittura, anche per la somiglianza tra questi due gesti. C’è da un lato tutta la simbologia di purificazione delle scorie tramite il fuoco, di trasmutazione alchemica di una ganga di materiali disparati in una quintessenza fondata in sé stessa. C’è anche una similitudine più semplice, manuale, tra lo scrivere e il tenere acceso il fuoco con equilibrio di legna, di soffio, di carta, a volte di alcool. A volte la fiamma stenta per ore, a volte la legna è poca o poco stagionata, a volte dopo molti tentativi, quando si è già rinunciato, c’è una fiammella sotterranea che si propaga in un attimo a tutta la catasta.

Un tempo ero convinta che il salto tra la lingua d’uso e la lingua letteraria fosse in una sorta di preziosità inusuale del lessico e della situazione. In realtà è piuttosto una questione di tono, di un ritmo che sin dalle prime battute si percepisce diverso: ed anche frasi che pronunciate in altro modo scivolerebbero via senza lasciare traccia, acquistano in questo tono e ritmo una risonanza particolare, inconfondibile. La mia scrittura è stata forse originata da questo bisogno coatto di ripulire, mettere a punto, precisare, un discorso che mi sfugge dalla bocca senza alcun controllo.

Alla stazione di Nervi, appena dopo il calar del sole, nella luminosità diffusa, un treno con i finestrini accesi sfreccia rapido di fronte alla balaustra affacciata sul mare, e una volta che è passato lo sguardo scopre dietro di lui il mare immerso nella luce grigia, e davanti alla linea dell’orizzonte un traghetto con gli oblò illuminati. Lo sguardo pensa a tutte le storie che sfrecciano via dietro i finestrini del treno e gli oblò della nave e si rende conto con tristezza di non avere nessuno da rimpiangere: nessuno è partito, nessuno sta per sparire

all’orizzonte. Lo sguardo deve allora forse inventare una storia per collocarla tra quegli abitatori di luci fuggitive: inventare qualcuno che è partito, per poterlo rimpiangere.

Lo spazio è tutto, lì dove non c’è il tempo. E se non c’è il tempo non c’è neanche la fine del tempo. Lo spazio solido e immobile invade tutto di sé, e la stessa esistenza non è che una posizione in quello spazio, il quale si modella intorno all’esistenza come una presenza gelatinosa. C’è un silenzio intessuto di battiti attutiti, sciacquettii, aria smossa, fiumi sotterranei lenti e continui. Da qui, da questa dialettica tra spazio-conchiglia e spazio-infinito, ha origine il racconto

Una serie di immagini che rimandano in forme e modi diversi al binomio materia vivente/materia inerte, con i relativi passaggi di trasmutazione. Ad un certo punto avevo appuntato su uno dei quaderni una frase di Wittgenstein "Ogni mattino dobbiamo penetrare di nuovo attraverso cumuli di pietre morte per arrivare al vivo, caldo nucleo".

Questi miei quaderni, luogo insieme mobile e tangibile della scrittura, che ho trasportato in tutti i luoghi del mio pellegrinaggio di anima in pena - case, quartieri, città, bar, aeroporti, ospedali - sono stati il mio luogo privilegiato per la tessitura complessa e discontinua del mio mondo. La loro presenza mi consola, lenisce il sentimento di dispersione di me, di smarrimento. Le loro copertine lise, variegate, familiari, sono in qualche modo la conchiglia del mio mondo e del mio discorso sul mondo

E se la pietra di Sisifo fosse un’immagine della pietra filosofale? In tal caso non si tratterebbe di cercare tanto lontano, ma solo di riuscire a vedere veramente ciò a cui si aderisce con tutto il corpo e la fatica - la vita? In un libro sull’alchimia di cui ho dimenticato l’autore, si dice che "lavorando il corporeo e trasmutandolo, l’alchimista trova l’uomo autentico che non c’è ancora".

Tuttavia, mi preme dirlo: questa storia è dedicata a chi sa che le storie non si costruiscono come una casa - con una griglia di cemento armato preliminare e poi le rifiniture, gli impianti, gli infissi - ma come una tela di ragno. Costruzione paziente del discorso che filando e filando, secrezione infinita, si dispone in una forma compiuta, luccicante di geometria e di saliva.

 

Tiziana Colusso:
Sito internet: www.tizianacolusso.it

Autrice di narrativa, poesia, testi teatrali, fiabe, saggistica. Ha fondato nel 2009 e dirige il trimestrale telematico FORMAFLUENS - International Literary Magazine (www.formafluens.net).

Dopo la laurea in Letteratura Comparata a Roma ha vissuto a Parigi, specializzandosi all’Université Paris-Sorbonne e collaborando con “La Republique Internationale des Lettres”. È stata dal 2004 Responsabile Esteri del Sindacato Nazionale Scrittori e tra i promotori della nuova Sezione Nazionale Scrittori SLC-CGIL, creata nel 2014. Dall 2005 al 2011 è stata eletta nel Direttivo (Board) dello European Writers’ Council, Federazione delle Associazioni di autori dei paesi europei, con sede a Bruxelles.

Tra le sue pubblicazioni: La manutenzione della meraviglia. Diari e scritture di viaggio, 2013 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri; Ecofrasie, audiolibro con CD allegato. Testi di Tiziana Colusso e musiche originali di Natale Romolo e Federico Scalas. Edizioni Terre Sommerse 2012; La lingua langue (traduzioni di suoi testi poetici in dodici lingue: Arabo, Bengalese, Bulgaro, Danese, Francese, Giapponese, Lèttone, Inglese, Romeno, Slovacco, Spagnolo, Ucraino, prefazione del Prof. Jean Charles Vegliante - Université Sorbonne Nouvelle) Ed. Eurolinguistica 2010; Il sanscrito del corpo, Fermenti 2007; Italiano per straniati, Fabio D’Ambrosio Editore, 2004; La criminale sono io – ciò che è stato torna a scorrere Arlem 2002, riedizione in eBook 2011, sito letterario “La recherche.it”; La terza riva del fiume, Ed. Impronte degli Uccelli 2003; Né lisci né impeccabili, Arlem 2000, Il Paese delle Orme, Edizioni Interculturali 1999; Le avventure di Gismondo, mago trasformamondo, Edizioni Musicali, 1998. Ha partecipato a numerose antologie di prosa e poesia (tra le ultime L’amore è un topo strabico, (racconti), Robin Edizioni 2010; Poesia a comizio, Empiria 2008; Cattivissimi, racconti neonoir Stampa Alternativa 2012) e a vari Festival Letterari in Italia e all’estero. Collabora riviste, enti e istituzioni culturali.

Pratica dal 2006 il Tai Chi, e da molti anni la meditazione Vipassana.