Silvia Comoglio, da “Via crucis” (puntoacapo, 2014), nota critica di Rosa Pierno

Silvia Comoglio, da “Via Crucis” (Puntoacapo, 2014), nota critica di Rosa Pierno

 

Che ci sia uno sfaldamento nella descrizione è cosa prevedibile poiché oggetto della narrazione è il racconto della via Crucis. Raccontare della tortura e della resurrezione tramite gli oggetti che sono presenti sulla scena immaginata comporta una trasformazione, in direzione del tutto paradossale, superante il limite della congruenza: “immoto soffio”, “ciottoli silenti” a testimonianza della loro impossibilità di diventare simboli in un simile racconto. Ma implica anche una restituzione caotica del mondo divenuto contemporaneamente tutto interiore: sarà qui il luogo ove si potrà affermare che esiste un dentro dello specchio, un”’alba appena simulata”: il vero qui, infatti, non si raggiunge più con l’ordine, ma con la sostituzione, anche contro ogni evidenza, tal quale, d’altronde, accade nel miracolo della resurrezione. Sarà proprio la ‘mutazione’ a dare la stura alla scala metafisica: così la fine “fiorisce di eterno” e “l’albero ha lo specchio dentro la sua foglia”. Ogni cosa appare capovolta e da concreta si fa mentale, dove il mentale pretende d’essere l’assoluta verità.

Saltati tutti i punti di riferimento, il mondo non può più essere comprensibile: “Sono mondo – in cui l’estremo non posso più capire”. E conseguentemente le cose sembrano esclusivamente intuibili, non più logicamente correlabili. Una sintassi fratturata a livello lessicale impedisce che si formi un senso compiuto, favorendo una rotante sovrapposizione di schegge d’immagini che non si raccordano, appunto, mai in una figura intera. Tale esito è d’altronde esplicitato non solo formalmente: “il buio da me scritto per leggere e capire”. Boe disseminate indicano una sorta di corrimano: specchio, silenzio, respiro, alberi, luce, corpo, tempo, sasso in una cartografia personale che rifà il percorso della narrazione evangelica in maniera personale, indicando questo testo come un simulacro che ha valore testimoniale. Siamo sostenuti in questa ipotesi da un discorso che si fa sempre più autobiografico: “ il limite che viene di tempo a cominciare / rovescio di fessura del rovo della terra / dove, a gemito che sono, il ventre si rimbalza”. La parola viene innalzata come parola unica che tutto sovrasta: “nel bagliore dell’unica Parola che immobile si espande / serbando ripetutamente l’ora e sempre vissuto a prima volta”. C’è una contrazione del convertire, in finale, dove persino le parole paiono soggiacere a una verità rivelata: e non a caso è un’immobile verità che improvvisamente si fa decifrabile: “in cima, in cima alla collina, dove il labbro /in forma di prodigio, intesse tutto il balbettio, in vibrante semplice discorso”. (r.p.)

 

Sesta Stazione

Nòmini chi sono, tra gli orti e questa casa,
in un tempo a parola già prescelta, chi prese
un ramo del mio volto, se essenza, sono,
immota della fonte, o enìgma restato nella traccia
di un sacro stupore delle labbra. Nòmini e descriva
l’ocra che ricopre la cima di montagna,
e l’àlbero e la nube, e quésta stessa terra, e il témpo
di sopra queste teste che è bagliore, bagliore necessario
di un cantico sospeso nell’estasi di istanti
pròssimi di soglia, di – irrompere di mondi del tutto –
trasparenti, “a – mattutino colpo dìvampato in cielo
biànco, a margherita – 

 

Undicesima Stazione

Vada questa notte dritta dentro casa,
passando per il viale a mura che si abbassa
sfondandosi negli occhi, un viale, un viale senza luce
dove la voce che si sente è sull’orlo –
dell’orrido più puro, flebile sul corpo
sfatto e ricomposto in ordine di croce. Vada –
dove saliranno tra gli alberi leggeri, bianchi di cicogna,
tutte le buone terre, le palpebre dischiuse, a scalzo –
moto della luce. E sia, a casa, il Tempo che ripete
l’estremo attimo che tocca l’albero a bisogno
di un tronco più leggero, e il tutto e il mare e il mondo –
a chiodo trapassati forzando inauditi! voli di discesa,
fragori di semplici e ritorti nomi sigillati tersi –
alla finestra ---

 

Silvia Comoglio è nata nel 1969 e vive a Verrua Savoia (To). Laureata in filosofia, ha pubblicato le raccolte Ervinca (2005), Canti onirici (2009), Bubo bubo (2010), Silhouette (2013), Via crucis (2014). Suoi inediti sono apparsi nel blog “La dimora del tempo sospeso” e nelle riviste “Il monte analogo” e “Le voci della luna”. E’ presente nei saggi Senza riparo. Poesia e finitezza e Blanc de ta nuque, entrambi opera di Stefano Guglielmin, e nell’antologia Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta, a cura di Davide Ferreri e Emanuele Spano.