Romano Morelli, saggio breve inedito, premessa di Mara Cini

NON SCRIVERTI
tra i mondi
Paul Celan

Alle riflessioni di Morelli sulla poesia e sul nostro presente, si potrebbero aggiungere altre note, altre considerazioni, altre domande … si fa poesia solo con elementi verbali o anche con altri segni? … con il linguaggio alto della letteratura o anche con scarti e frammenti di vocaboli?…sappiamo dalle avanguardie, da Duchamp, che l’arte non solo si crea o si elabora ma si può anche trovare …la poesia può essere traccia di una memoria, presagio, semplice ricordo, composizione metrica ma anche elenco, lista, annotazione…

La severa riflessione di Romano Morelli, giustamente, associa la forma del mondo al linguaggio sottolineando che nessun campo semantico, comunque, è in grado di dar conto pienamente dei grandi eventi che accompagnano l’umanità. La poesia, con più veggenza e con più timore è questo che, spesso, ci ricorda. (m. c.)

 

Ancora una riflessione sulla poesia e sul nostro presente.

L’attuale - anche se tutt’altro che recente - assoluta, singolare solitudine dei poeti è solo un punto di partenza, il più evidente forse, ma certo non il più importante, per affrontare il tema del rapporto tra presente e poesia.

È una questione che è stata sondata, pensata, percorsa molte volte.

E’ un fatto tuttavia che rimane sempre una certa quale insopprimibile insoddisfazione: è come se il bisogno di ritornare ad indagarla risorgesse incontenibile, come se, anche per la poesia, quel ripensamento dei fondamenti che percorre tutta la cultura dell’Occidente moderno non avesse poi consolidato granché nonostante i dibattiti e le evidenti conquiste. E’ come se, malgrado le certezze che tanto spesso assomigliano così tanto a dati acquisiti, su ogni nostro prossimo passo - quello che dovremo fare domani - continuassero ad incombere e ad accompagnarci sempre le stesse ottuse domande, la stessa paura, la stessa paralizzante incertezza.

Da tempo i poeti vivono distanti, si pèrdono e muoiono insepolti.

Il poeta oggi si trova, contro la sua volontà, contro la funzione stessa che il linguaggio gli assegna, nella condizione di un mandarino, come il fisico, il matematico, il filosofo che operano ormai su realtà talmente distanti dalla coscienza comune da essere incomprensibili - e quindi sono incompresi, e quindi ineluttabilmente soli.

La grande poesia europea si trova ad essere l’avamposto estremo e quasi perduto della coscienza dove arrivano, si interpretano, si trasmettono le informazioni su ciò che di visibile sembra apparire dell’oscuro destino che ci aspetta.

Oggi, da quest’inospitale e quasi irraggiungibile punto di osservazione è possibile indovinare (mentre nella città, dove l’aria comincia a mancare, si continua ad amare e a odiare come al solito) che non solo la via è smarrita e che davanti a noi si stendono solo misteriose, perverse, impraticabili opportunità, ma soprattutto, che quella che avevamo creduto la via percorsa in realtà una via non lo è mai stata: tutt’al più si è trattato di una serie di fortunate, sciagurate coincidenze, tratti sterrati, radure, guadi immeritati.

Non solo: oramai le osservazioni convergono sul fatto che siamo evidentemente impreparati all’evidenza di dover cominciare a costruire la nostra, quella vera, quella che ancora non c’è. Ciò è tanto più disperante perché non sappiamo dove dirigerci.

Intanto, mentre la città crede di vivere, l’inatteso incombe.

Ecco perché non della città parla oggi la poesia europea né delle parole della città essa si può servire; ma con fatica e dolore si forgia invece le parole rozze, dense, brucianti, che dicono l’orrore e la paura che ci stringono e ci crescono attorno.

La poesia europea degli ultimi due secoli è una ferita, è il luogo sensibile della coscienza europea: esposto, indifeso, dolorante e reattivo come una ferita sempre aperta.

 

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I. L’uomo è linguaggio. L’uomo diventa tale nel e con il linguaggio. Nulla esiste per l’umanità senza o al di fuori del linguaggio. Nessuna cosa esiste, nemmeno l’uomo, là dove manca la parola. Il linguaggio dà forme al mondo e lo apre all’azione dell’umano.

II. La poesia è, tra i tanti aspetti del linguaggio, uso totale, potenziato e creativo. Attraverso la pratica del linguaggio in tutte le sue risorse costitutive (semantiche, sonore, strutturali) la poesia lo mantiene vivo, produttivo, strumento e luogo di conquista, creazione e comunicazione.

III. La poesia è stata – e lo è tuttora – il regno dove sentimenti, emozioni, esperienze, ricevendo i loro nomi, sono diventati patrimonio culturale cioè strumenti trasmissibili ed utilizzabili per comprendere, dare un senso a ciò che l’individuo sente e che, altrimenti, rimarrebbe nascosto, oscuro.

IV. A un certo punto, nell’Europa del XVII secolo, per una serie di avvenimenti economici, storici, culturali concomitanti l’antico equilibrio tra uomo e mondo si è spezzato, quell’equilibrio che era durato tanto da introdursi nella mente e nei nervi dell’umanità come naturale, l’unico.

Attorno a questo asse ruotavano tutte le concezioni necessarie e sufficienti all’essere umano per fondarvi un senso: destino, sapere, morale, linguaggio. Ora, alla luce dei cambiamenti sopravvenuti, gli antichi fondamenti della condizione umana nel mondo cominciano a non funzionare più, a non rendere ragione delle domande, delle nuove emergenze in cui l’umanità europea si trova a vivere e a dover decidere.

Le risposte alla necessità di rifondare il rapporto uomo/mondo sono state molteplici, diverse, anche radicalmente diverse, divergenti. E’ stato un vagare alla cieca, sulla spinta dell’urgenza, verso terre sconosciute senza potersi mai fermare.

Noi, oggi, siamo ancora nel pieno di questa dolorosa migrazione.

V. Da più di due secoli ormai la poesia accompagna in questo viaggio l’Europeo.

La poesia può e deve continuare ad essere se stessa, ciò che è stata per tanti secoli: lo strumento per l’identificazione, l’espressione, la comunicazione di sentimenti, esperienze, pensieri. Ma si trova oggi obbligata, come tutti gli strumenti umani moderni, non solo a svolgere il suo compito, ma anche, allo stesso tempo, a ripensare il suo rapporto con il mondo: deve parlare contemporaneamente del dramma dell’umanità in viaggio nella tempesta senza direzione e di se stessa, del linguaggio.

La poesia porta, in questo errare, la croce della mancanza di fondamenti, della ricerca di fondamenti, della libertà da fondamenti. Nella poesia di oggi si esprime l’angoscia atterrita di ogni errare: il bisogno atroce di una meta e della pace, nel ripetersi inevitabile, in un’attesa forse vana, del sacrificio delle nostre piccole, ma uniche vite.

VI. La potenza senza freni della tecnica, liberato definitivamente l’uomo dalla natura, apre davanti a noi un mondo senza confini dove l’unica presenza che sentiamo è quella di un mistero infinito.

Essa ci arricchisce di inaudite potenzialità, ai limiti del comprensibile e, oggi come oggi, oltre il governabile. Le macchine che abbiamo messo in moto e che ora avanzano spinte spaventosamente solo dalla forza della loro inarrestabile logica ci hanno gettato in un tempo che è troppo lontano dai nostri vecchi millenni dove avevamo radicato le nostre concezioni di vita, spazio e tempo.

VII. Come Europei abbiamo fatto esperienza precoce, significativa e ammonitrice dei pericoli di cui sono gravidi questi grumi in corto circuito: la prima e la seconda guerra mondiale, i campi di sterminio, la proliferazione atomica, la rapina cieca delle risorse del pianeta. Nessun campo semantico, oggi, in grado di accogliere pienamente questi orrori né di dire il futuro che si prepara.

Qui abita il poeta, in trincee tanto profonde da sembrare tunnel oscuri che sboccano verso l’inesprimibile non-ancora-umano.

 

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La scomparsa della nostra vita sulla Terra è l’orizzonte entro il quale siamo chiamati a vivere, ad agire, a consumare le nostre così brevi vite. E con la coscienza che nessun Dio, ma noi, solo noi siamo responsabili, noi, così deboli così bisognosi d’aiuto, così tragicamente, assolutamente soli con noi stessi.

Questo è, deve essere, l’orizzonte terrificante della poesia occidentale. Di questo la poesia deve tentare di parlare, rendere ragione. Alla luce di questo sole desolante dobbiamo cercare di costruire la nuova dimora. Ogni altro orizzonte è falso, consolatorio, truffaldino, mortale.

Semplicemente dunque, la poesia deve cercare le parole per parlare di ciò di cui ancora non si può; deve tentare di dare un senso a ciò che ancora non può averne.

E con lo sguardo fisso sulla verità del baratro deve cercare di mantenere in vita la speranza.

 

Romano Morelli è nato a Liegi, Belgio, il 13 giugno 1953. Vive e lavora a Padova.Ha pubblicato due volumi di poesie: “E’ non è”, presso l’editore Rebellato, 1988 e “Questo essere”, Mimesis, 2013.E’ autore inoltre di un saggio su Hölderlin, “Su Hölderlin e il sacro”, nel volume collettivo: “Teologia della follia”, a cura di A. Martin e M. Geretto, Mimesis 2013.