“Onesti versi” su Luca Artioli

 

Luca Artioli, “La casa a cui vieni”, L’arcolaio, 2012, pp. 79, euro 11,00

 

Onesti versi

Con “La casa a cui vieni”, Luca Artioli presenta una raccolta nella quale si coglie una sorta di non detto assiduamente presente.

Il linguaggio è piano, il fraseggio del tutto comprensibile, eppure qualcosa chiama da fuori.

Un fuori che tuttavia è anche dentro a quelle parole, a quelle articolate immagini, a quel poetico àmbito verbale.

Qualcosa c’è e non c’è, si mostra e non si mostra in un divenire idiomatico che nel descrivere l’esterno partecipa di un’interiorità onnipresente nella sua minima, immensa dimensione.

Dimensione intima di un’attitudine espressiva piccola ed enorme nello stesso tempo, non misurabile in metri o grammi, bensì in intensità dell’esserci.

Il percorso della silloge si svolge, così, lungo direttrici dettate da una salda consapevolezza del valore dell’esistere.

Le persone, gli avvenimenti, gli oggetti sono , appaiono per via di un atteggiamento poetico che parla la sua semplice lingua.

Leggiamo:

“E se piove sarà divano, piedi
scalzi e onesta poesia”.

Il “divano” diventa, in una giornata di pioggia, quasi circostanza esistenziale (non a caso è usato il verbo essere: “sarà”) ed elemento di passaggio da una maggiore naturalezza (“piedi scalzi”) a un’“onesta poesia”.

L’aggettivo è di non secondaria importanza.

“Onesta” non pare alludere a un’auspicabile sincerità quale traguardo da raggiungere, ma a una dimensione dello stare al mondo che continuamente si ripropone e, dunque, è progetto, desiderio, necessario sbocco espressivo.

Non mancano tratti capaci di meravigliare

“Sediamo sull’erba come
chi entra nella notte”,

d’indurre a una riflessione sulla stessa natura del comporre versi

“il chiostro della poesia”,

o di suggerire un rimpianto che sa farsi solida constatazione

“La solitudine dei gesti incompiuti
racconta della mano che non ha
carezzato, del piede immobile”.

Il tutto per via di tocchi precisi, misurati, volti a non interrompere una narrazione poetica che assume, in quanto tale, un importante ruolo.

Il lettore può apprezzare, di pronuncia in pronuncia, una raffinata trama linguistica in cui il senso di trasferimento proprio del racconto (forse già annunciato, in forma di moto a luogo, dal titolo) si avvale di un costante e indicibile quid che, pur non essendo parola, è onnipresente.

Non si tratta di un’origine in senso stretto, ma di un ininterrotto accenno sotteso, quasi un rimando che non si riferisce a un’entità esterna poiché vivido riflesso che fa parte di quella medesima entità.

Siamo fatti anche d’ineffabile: questo mi pare l’onesto messaggio di Luca Artioli.