Giovanni Campana, inediti da “Delle parole (e loro luoghi)”, con una nota critica di Giorgio Bonacini

Versione stampabilePDF version

TRATTATELLO IN PENSIERI SCIOLTI E VERSI

 

§ n. 21 Della restituzione che nella parola della poesia ha luogo.

Una restituzione, insomma, un ritorno… a qualcosa di nuovo che da sempre siamo. Sarà forse il divino della sua musica a fare questo, nella poesia; sarà che il ritmo è degli dei, sarà che un dio pulsa in esso; sarà che essa genera luoghi e silenzi che altrove nelle parole non troviamo, luoghi e silenzi in cui essa ci inoltra, pieni d’ogni sussurro e tuono della terra. E anche d’ogni luce, naturalmente, e ombra... luoghi ombreggiati o riarsi; e cose, anche le cose, e le dolcezze e i pianti, le lacerazioni, i presentimenti. Tutto porta la parola della poesia, questo inoltrarsi che essa è, questo perdutamente ritornare a qualcosa di mai prima visto, mai toccato, qualcosa che sempre è luce, anche nella più amara e buia delle parole di poesia, poiché essa sempre è un vedere, come la parola stessa sempre lo è… e il vedere - è così facile dimenticarlo…- il vedere è luce. Forse, se poesia è la poesia, se davvero accade in essa questo perdutamente inoltrarsi in un ritrovamento, una restituzione di quel che solo ora è dato in una insuperabile singolarità, se questo nella poesia accade, è perché essa tocca il luogo, inoltra nel luogo in cui tutto è tutto... E il corpo, questo corpo della mia esistenza, questo mondo delle cose, insomma, non è più il miraggio della vita che mi sfugge, qualcosa di perduto: lì, nella parola della poesia, tutto è raggiunto nel suo luogo, il luogo ultimo (sempre è così per la parola, ma mai come nella poesia questo si mostra…); ed è pienezza che si compie, è parola a cui nulla manca, parola che è tutto – tutto è tutto nel luogo ultimo - anche quando è struggimento, quando dice la mancanza... o il dolore, anche il dolore…

 

Parole che vedo (18)

…a volte,
traluce il cosmo in uno specchio di gioia
lacrimata, tutto
si fa in me uno
in una
lucida ubriachezza,
e l’anima, bocconi, in sé travasa
persino ogni cesura ed ogni orrore
composti in un abisso di pietà

ci parli, non so come, verità,
in questo grido
di bocche rovesciate e corpi e fuochi
di città morenti

eppure
anche è tuo il grido
colmo e le manine
che accendono di soli i nostri passi

tutto è qui, tutto, in una
parola totale…

 

§ n.22 Della poesia e del corpo.

L’abitare il luogo ultimo non può che essere un abitare la pienezza. E la voce, che è del corpo, la voce stessa che porta le parole della poesia, e il ritmo – che, anch’esso, è del corpo - sono il sacro in cui il luogo ultimo è ridato, tutto è ridato; e lo è in un significare che nulla può separare da quella voce, una coincidenza perfetta, una pienezza senza scarti che si brucia - e insieme s’arresta, esce dal tempo… - nell’immediatezza di quel suono, in quelle nascoste caviglie e tamburelli che sempre danzano nel verso…

 

Parole che vedo (19)

…riverbera dai tempi e ancora impelle,
quasi rintrona in questo
limbo d’assenze, un’altra risonanza


…caviglie e tamburelli…
e     …il tendine disciolto allo sfrenato
numero del dio…
e     …la furiosa
         gioia che libera…

non si abbevera l’anima, oramai,
che a inconsolabili perdite

lenite in un’eterna pacatezza…

 

Parole che vedo (20)

 …un vostro tacere fa assorte le cose,
l’anello
d’un immenso silenzio ci racchiude

su noi vegliate?
o, allo sguardo pensoso, non dissacra
ogni rotondità di cerchi eterni
la ferma furia della
linea che inghiotte?

o la faglia segreta del non dire
sprigiona una luce pagana,
l’inebriante cecità di un divino pulsare alla tempia
nella scocca che folgora l’istante…

 

§ n. 23 Se le parole, come ogni altra cosa, siano anch’esse limite e troncamento.

Che le parole siano anch’esse limite e troncamento, che esse, alle quali affidiamo ogni nostra cosa, affidiamo noi stessi, esse che portano i nostri affetti, le cose più care, che le parole siano anch’esse in un brutale troncamento, come è di noi stessi e delle nostre vite, questo è, ovviamente, un grande tema, che s’impone con la forza di innumerevoli evidenze, tema che, in questo senso, verrebbe da dire fin troppo facile, addirittura scontato. Le parole, viste nella loro tronca opacità, nella loro afasia, le parole in quanto dette a mezzo – sempre, lo sappiamo, sono dette a mezzo le parole – le parole in quanto lacerate, tronche, sanguinanti…: questo è forse ciò che più facilmente è rilevato in un primo indagare, al di là delle tante apparenze liete, anche festose... Parole come luoghi interrotti, ponti interrotti, potenze infelici, in fondo, impossibilità; ricche, questo sì, di struggente bellezza, non povere di fascino, certo, non prive di promessa, non che le parole non siano gravide di desiderio, alimentate da un fuoco vitale… Promesse mancate, piuttosto, fuochi immancabilmente volti ad un irreparabile spegnimento. Si può negare che questo – anche questo – sempre siano le parole? Non si può che ammutolire di fronte a questo carico di laceranti impossibilità, parole che non sanno dire, non possono dire, come, in fondo, sempre accade alle parole... Così possono essere viste, così possono essere vissute le parole. Così sono d’altronde le nostre stesse vite: tronche, vite cieche, linee spezzate. Non si può fingere che così non sia, qui non è ammesso.

 

Parole che vedo (21)

 …sottace penombre un timbro
più interno; a volte,
mi so nel punto che vi abbuia
in perdute sagome: parole
in figura di uno stanco nulla

precipito in una
sfinita mutezza

ma freme irrequieto un contorno…

 

Parole che vedo (22)

…ci ingannate, parole,
col vostro tutto tondo che ci scoppia di luce
tra le mani; eterno
non resta che il passato, eterno sarà stato
questo rimpianto senza fine…
basta… in voi prolungano il giorno
non altro che perduti bagliori,
smagra l’ora che passa e la gloriosa
luce quotidiana
la grande attesa di rivelazione…

 

Parole che vedo (*)

…scialbano, un tempo densi,
gli attimi lunghi d’una scolorita,
ormai, attesa di riscatto: “L’urlo
che trapassò le tempie cade a terra -
mi dice un cuore fatto stanco - nulla
passa la soglia”….
Mi guardo intorno: pure
dietro le cose allude un permanere
strano,
anche il mio corpo attende,
anche quel grido,
appeso al proprio istante senza fine…

 

§ n.24 Di come l’irriducibilità della domanda e la certezza della risposta non possano che ingrossarsi nel tempo...

A questo, tuttavia, non ci si può arrestare, alle parole viste nei loro limiti opachi, alle parole così come appaiono ad uno sguardo cieco, come sempre è, anche, lo sguardo dell’esistenza, una cecità che viene dal cieco confine dell’esistere. Qui si parla del loro luogo vero. E il luogo vero delle parole è ogni volta sempre l’oltre di ogni troncamento. Nessun azzardo nel dire questo. La verità – con tutto il trepidante silenzio che deve accompagnarla - non è pretesa assurda. Essa viene a noi semmai con la forza serena di una chiara evidenza: le parole sono più di noi, e di là, da quel luogo maggiore, di là esse vengono a noi. Con esse abitiamo luoghi sconfinati. Non luoghi indefiniti - qualcosa di nebuloso in cui perdersi, disperdersi ­- è, semmai, che sconfinatamente abitiamo quei luoghi, il luogo di ogni parola. Così lo stare, l’andare, e l’alzarsi, il conversare, il camminare, così l’angolo della strada, il negozio all’angolo, e l’ora, l’attesa, e il saluto, il viaggio… Ogni parola è in noi ogni volta uno sconfinato abitare, ogni parola. Lo scavo può dunque continuare: la domanda s’ingrossa ad ogni spiraglio di risposta… e la risposta… la risposta – senza togliere nulla all’irriducibile drammaticità della domanda – si fa sempre più certa...

 

 ***

Che la poesia ponga sempre in se stessa un atto di autoriflessione sulla sostanza materiale che la compone, cioè la lingua nelle sue diverse diramazioni significanti, è un dato che tutti riconosciamo come ineludibile nel fatto poetico: come atto di conoscenza (e anche ri-conoscenza) sia esso implicito o esplicito nel testo. Ma è raro trovare una meditazione tanto personale, quanto universale – per chi ha a cuore il pensiero della scrittura – come questa. Una concentrazione di ragionamento che ha al centro, come luogo di immersione ed espansione, le parole.

Per gran parte in prosa, questo argomentare si apre, ogni tanto, a illuminazioni, a sovrapposizioni e anche ad apparenti oscurità. E il tutto senza chiusure o compressioni o sviamenti, ma sempre tenendo il filo di una ricerca interiore che pone domande e accoglie risposte, che sono esse stesse interrogazioni per ulteriori risposte mai definitive; così come avviene inevitabilmente in un andamento pensante in cui l’autore è consapevole di non sapere fino in fondo ciò che ha di suo nelle parole, ma di una cosa è certo: “...ho voi parole...”. E Campana per indagare questa cosa, che è la parola nel suo fare, che dice in sé e fa dire in noi e a noi, parte dalla percezione del proprio essere in quanto corpo e Io: ambedue partecipi, anzi di più, fautori indissociabili dell’esistenza. Ma quando proviamo ad estrapolarli in un atto di conoscenza, allora divengono altro da noi: infatti, non è irrilevante che si dica “il mio corpo”, “il mio pensiero”, e se qualcosa è posseduto da me allora, precisa l’autore, “io non sono quella cosa”. Siamo, dunque, di fronte all’inquietante e forse innaturale, ma reale rapporto tra l’Io e l’altro; una relazione però straniante, perché proprio nel momento in cui la consapevolezza di ciò che le parole sono, o sembrano essere, è così lucida, Io e l’altro convergono in una altalenante associazione che lo sguardo mentale segue ma non afferra in pieno. Ed è qui allora che le parole, più che ascoltate vanno indagate nel loro ascolto, nel loro luogo, affinché, dice Campana, la cosa nominata ci venga restituita come significato toccato.

E’ con le parole che vediamo, perché il dire illumina il detto e il non-detto, e tutto sembra essere voce che accende “l’azzardo di una/parola totale”, che è motivazione suprema, forse irraggiungibile, ma sempre più avvicinabile. E ciò fa sì che in questo testo la scrittura sia frutto di una pensosità che si muove sempre intorno al suo centro: lì dove ogni parola è inesauribile, dove nessuna parola è “fuor di metafora”. Lì dove le parole abitano e sono il luogo del loro e del nostro senso. Dire veramente: è questo che noi, anche se imperfettamente, facciamo con il suono e con il silenzio. Porgere dei sensi in un percorso che sia contenuto e che contenga la parola detta, la parola data come dono di libertà, senza sottomissione alcuna. E dov’è che la parola rivela, seppur nascostamente, il suo restituirci a una vita pulsante, toccante, inseparabile dalla voce che coincide con la pienezza del suo essere Io e corpo? E dove la scrittura è limite, impossibilità di un dire totale e prova di sconfinamento continuo? E dov’è che le parole “sono più di noi”, ci dice Campana chiudendo il suo trattatello, se non in poesia?

 

Giovanni Campana è nato a Modena nel 1949. Laureato in filosofia. La sua esperienza intellettuale è dominata dalla durezza del confronto tra il riferimento religioso, sia pure incessantemente problematizzato, e la piena immersione nel pensiero filosofico ed epistemologico contemporaneo. Ha pubblicato il volume di poesie Pensieri sulla soglia e Autoglosse con Cierre Grafica.