Enzo Campi, inediti da “Ligature”, con una nota critica di Giorgio Bonacini

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da preamboli

 

 

*

una serie di idiomi vacui
come pulviscoli smottati
dal vento si leggono
a malapena tra soglie
destituite e frammenti
di cornici scarnificate
dall’incedere del tempo
e dall’acqua emerge silente
la serie dei feticci per
rinverdire delle parusie
il coatto codice dove
tutto viene a sé senza
contatto alcuno o forse
solo decede riconoscendo
all’orante il fitto reticolo
della sua indecidibilità

 

*

l’animale che ci sorprende
nudi e provoca il disagio
la voce la sola che possa
dire isola senza colpo ferire
la zattera che aspira alla
deriva il nerofumo che si
spaccia per vapore o nebbia
il punto ortivo a cui ogni
verbo vorrebbe tendere
la mano non sono mirabili
espedienti per restare al passo
ma solo meteore semantiche
attraverso cui farsi largo
per approdare nella radura
e rivendicare il diritto di
affiancarsi all’inesprimibile

 

*

se il verbo qui mortificato
indica l’impossibilità di una
destinazione traghettando
l’ombra nella diafana luce
di un’aurora privata della
rugiada ove cristallizzarsi se
la morìa dei referenti implica
la chiamata al sorgivo se le cose
tutte si consegnano tronfie
all’inevitabilità della perdita
non si potrà dare del morente
al viandante che asseconda
l’enigma rinnegando l’urlo
ove auditori e astanti
coltivano la mera illusione
d’una possibile risoluzione

 

che siano grumi di catrame
ad otturare i crateri o biancume
di calce stesa a cancellare il verbo
che siano soffici palle di lana
ove ci si raggomitola a riccio
o semplici espedienti per rendere
palpabile l’inaccessibile
che sia celata vertigine di estasi
cristalline o lavica caligine calata
di netto sull’impavido letto che
ospita il seme al nero resta
il fatto che ogni singolo trauma
qui disilluso rifiuta qualsiasi
encomio e si pone in bellavista
per meglio ricevere il sasso
scagliato dall’inquisitore di turno

 

 

da ligature

 

*

solo libere andate
e reclusi ritorni
minima la pioggia
a colmare la crepa
sfocato residuo
che rigenera altro
dal necessario
e si svela l’incanto
nel simulato incarto
da cui esonda
l’infertile seme

 

*

dicono poco o niente
del particolare per
abulica mania ma
alludono al coatto
universale per poco
che sia o per il niente
che sarà e celano
ciò che cala dall’inguine
dismesso e si comprende
bene la solfa sperando
che la disposizione
di veti e veli sia
massima e fluente

 

tra volute d’equivoci
e esodi di senso solo
un obolo saettante come
preso tra i denti masticato
appena poi sputato nella
grezza gavetta risata grassa
e stille di sdegno una sapida
saliva che cola lenta e il tonfo
sordo per inaugurare la saga
in cui rendersi alla frattura

 

non cose da parte a parte
attraversate né gesti simbolici
per quanto affrettati o peggio
fissati in posture nessuna affezione
morbosa verso cunei arroventati
né ricicli semantici di improbabili
lessemi o meglio sopraffazioni
di senso vendute all’incanto
al miglior offerente nessuna
diffrazione né punti né colate
d’inchiostro a confondere le tracce
non uno spettro che rinviene
senza clamori all’inaudita presenza
solo aporie a inondare il vuoto
pneumatico della dissolta dimora

 

poi che da dopo a venire si dà
lo scarto a principio di cosa
o solo uno scatto che abiura
la fuga per quali ampi deserti
ci si lascia sabbiare per quali
declivi le parole sono chiamate
a franare per quali estreme
unzioni che già bussano alla
porta rivendicando il lascito
del morente si deve ancora
transitare per quali fasi ci si sfalda
nel poco che rimane nel punto
ultimo che si àncora al senso
sottraendosi al gesto sorgivo?

 

*

non fu risoluto
a urlare lo sdegno
né mai lo ritennero
abile a tenere per
mano la labile babele
che regola il flusso
delle maree in cui
rischiare l’approccio
con la risacca e ancora
oggi coagulando mito
e misticismo si chiede
perché debbano essere
sempre gli altri a decidere
se sia lecito e produttivo
praticare l’asfissia

 

pavidi scarti o vaniloqui
se pure sobri e inguainati
si danno come improbabili
apici che invitano alla
scalata e le pietre interrate
a metà nell’impervio sentiero
non restituiscono le voci ma
s'industriano ad assorbire
il rumore dei passi senza
che nessuna utopia possa
supplicare l'inaspettata grazia

 

nessun lucore se pure miniato
di fino a differire la serie
delle tenebre abortite né furie
improvvise o navi di mota varate
a vetro crudo nessuna loggia
da cui lanciarsi a peso morto
né vestiboli in cui urlare
il silenzio dell’assenza nessuna
leva a cui ancorarsi né perni
protesi o fulcri o indomabili
indigestioni di senso nessun
pendolo basculante per dettare
l’intervallo tra l’andata e il ritorno
solo grumi di sillabe infeconde
ammonticchiate a caso magari
annodate e messe in nota relegate
a piè di pagina come meri accessori

 

*

sciamando perfidi bisbigli
sghembi s’inarcano i cinici
simulacri si deforma l’imago
che staziona sotto l'arco e
fin anche lo speculo si infrange
in mille risibili cocci rimpiangendo
il tempo in cui poteva riflettere
l'identico e non la sparuta
parvenza di un qualcosa che
non rischia nemmeno il gesto
del semplice riconoscimento

 

a riffe confuse dadi smussati
e inconclusi a cose di poco
conto se pure enumerate
come innestate in chiare
legende o vacui palinsesti
o elenchi puntati alla meno
peggio a cose di troppo che
esondano dalle meste bordure
a fissaggi di lampanti refusi
a cadute di fonemi slabbrati
livide ingessature e scarti
semantici a tutto quello che
qui si dice a tutto l’altro che
qui si tace coincidono sull’asse
uno o più spaesamenti

 

si dissuade dal continuare
enumerando a ritroso i passi
compiuti nereggia le orme
con colate di caldo catrame
o recupera frasi fatte da
innestare sui margini elude
lo scherno degli inquisitori
di turno e marchia a fuoco
il crocevia ove tutti
sono chiamati all’enigma
rivendica il diritto di incenerire
le radici malate o si asseconda
lanciando il sasso ma solo per
nascondere la pavida mano

 

*

una lama lucida argentea
sadicamente privata di
ruggine e un vecchio
pennino saturo di pece
saettano convergono
ritornano ricoprono
o solo recidono nervi
e nodi e frasi di troppo
la mano serrata non lascia
la presa ma è questione
di sapori odori o conati
dettati dalla nausea imperante
e le ridicole maschere che
ancora velano un sottile
filo di perfidia attenuano
la viva voce che vorrebbe
far riemergere il silenzio

 

non un lamento né risibili
singhiozzi solo un sussurro
lasciato nello stallo a sfumare
cade di getto la falce sul collo
e il chiodo che cuce le labbra
si offre alla luce per sfatare
il sacro gesto della meridiana
non un tempo univoco né ore
limitate alla sola contemplazione
se mai istanti inanellati come
spirali per mordersi la coda
e andare a capo magari più volte
è solo vana vanità da misero
inchiostratore che sì emerge ma
solo per riproporre e consolidare
sull’asse il giusto inabissamento

 

da chiose

 

*

se ci si perde per labili margini
o chiari varchi ove tendere l’arco
e scagliare il dardo dell’anelata
rivalsa se ci si ostina ad esibire
l’ascesso come unica chiave
per l’accesso a un quando che non
sarà mai l’adesso e solo preserverà
i cadaveri semantici di una lingua
privata d’ogni specie di lucore se il
senso scema e se ne muore della
mancanza d’attrito tra l’inevitabile
circolo e l’intrigante scatola cinese
se l’alterco tra la pietra di fiume
e la sapida lapide inonda le radure
vanificando l’aperto ecco che l’ultimo
afflato di un canto tarpato coltivando
l’interrogazione si trattiene ancora
ai bordi per celebrare la sua finitezza

 

se un rumore di fondo un sibilo
ovattato o un edotto chaos magari
un ansimare diffuso perforano
i timpani se il rifiuto della sete
di possesso non riesce a trattenere
a sé l’interrogazione sputando
un ultimo afflato appena esalato
o un rombo abortito magari un nodo
nervoso che riannoda distanza a distanza
se l’irrisolto viandante ricerca
la strada del solo cogito in cui rendersi
prossimo all’inesprimibile se il coro
dei feticci ancora implora la prima
pietra di indicare la strada maestra
non si potrà dare del morente
allo scrivente che cancella le orme
per riproporre in eterno il passaggio

 

 

*** 

Fin dal titolo (e sappiamo che i titoli in poesia non sono dei semplici dati indicativi) questa raccolta di Enzo Campi sviluppa con estrema coerenza, il suo percorso dentro il fare di una lingua che cerca in sé l’esperienza significante. Uno scavo interno perché fuori dalla parola poetica “la moria dei referenti” non può che ricondurre necessariamente alla fonte sorgiva del legame tra la parola e il dire. Là dove il vero si consegna in metafore e i significanti raggiungono grumi o nebulose di significati e segni. E’ da qui che il senso scaturisce in voce intima: a volte allusiva, a volte decisiva.

In poesia il percorso che i testi ci indicano non è quasi mai lineare, e tanto più in quest’opera che, respirando su se stessa annoda distanza e vicinanza, così che può essere compresa (in una delle sue molteplici comprensioni) anche partendo dall’ultima poesia: che è la fine iniziale di un reticolo indecidibile ma, in alcuni punti di snodo, determinato. Così l’autore, a partire da un brusio, da un soffio strozzato che il poeta, ultimo vero parlante, nell’impossibilità di trattenere, riesce ancora a pronunciare, arriva a dire (ma non a tutti, non al conforme, non al “coro dei feticci ” che chiede la prima pietra ) che non può indicare una strada precisa. Perché nessuno può dar seguito a questa richiesta; nessuno che sia, mente e corpo, lucidamente dentro una scrittura viva. Scrittura che è rifiuto di ogni rigidità semantica, ogni illusione comunicativa e ogni allusione a un senso compatto.

Il poeta, quando dà voce al suo pensiero in grafìa e fonìa, pone ogni volta in essere un passaggio che si auto-riforna continuamente. Sembra ripercorrere i suoi passi, ma in realtà “cancella le sue orme” anche dalla sua coscienza, elimina i vecchi accessi dalla sua conoscenza e riporta il tutto a una nuova consapevolezza. Non c’è allora nessun contrassegno primigenio, nessuna primordiale pietra perché ve ne sono, fra le tante, almeno a due a porre il segno metaforico del reale che il viandante/scrivente riconsidera continuamente (in eterno), incoraggiando l’apparente incomprensibilità (l’enigma) dei gesti sonori o silenziosi. E queste due sono: la pietra di fiume e la lapide.

La prima, posta in mezzo alle turbolenze d’acqua del senso, ne devia i passaggi senza preavviso né preveggenza, dove è anche possibile una sua dissoluzione o un suo esodo. Poiché il senso, che ha significanza solo quando il fiato si concretizza in voce e il movimento in scrittura, può rimanere tale anche deflagrando in barlumi o in frantumi, o arrivare fin dentro le lontananze di parole che a volte sono “chiamate a franare”. La seconda, che sembra nominare un punto fermo, in realtà chiama alla sottrazione, liberando la poesia, con un atto di ribellione estremo, anche dalla fonte sorgiva. A tal punto da addentrarsi, “nel poco che rimane”, in sopraffazioni di senso che incorporano nell’oscurità un magma sillabico, fino al dolore di un ribollio sovrabbondante.

Ligature è dunque un poema ricorsivo che emerge dalla fluidità e dalla vicinanza di un’inevitabile conseguenza poetica: sia che la parola, come una lama, tagli la realtà, sia che ne riconsideri, come un pennino, le diverse modalità, resta sempre indistinguibile dal suo dire, dal suo fonema esistenziale che “vorrebbe far riemergere il silenzio”.

 

Enzo Campi è nato a Caserta. Vive e lavora a Reggio Emilia. Autore e regista teatrale. Critico, poeta, scrittore. È presente in alcune antologie poetiche edite, tra gli altri, da LietoColle, Bce Samiszdat, Liminamentis. È autore del saggio filosofico Chaos - Pesare-Pensare, scaricabile sul sito della compagnia teatrale Lenz Rifrazioni di Parma. Ha pubblicato per Liberodiscrivere edizioni (GE) i saggi Donne – (don)o e (ne)mesi (2007) e Gesti d’aria e incombenze di luce (2008); per BCE-Samiszdat (PR) il volume di poesie L’inestinguibile lucore dell’ombra (2009); per Smasher edizioni (ME) il poemetto Ipotesi Corpo (2010) e la raccolta Dei malnati fiori (2011). È redattore dei blog La dimora del tempo sospeso e Poetarum Silva. Ha curato prefazioni e note critiche in diversi volumi di poesia. Dal 2011 dirige, per Smasher edizioni, la collana di letteratura contemporanea Ulteriora Mirari e cura l’omonimo Premio Letterario. È ideatore e curatore del progetto di aggregazione letteraria “Letteratura Necessaria – Esistenze e Resistenze”.