Paolo Donini, da L’ablazione (La Vita Felice, 2010), con una nota di Rosa Pierno

La raccolta poetica di Paolo Donini “L’ablazione”, si presenta come un’investigazione effettuata tramite indizi, reperti, procedure, che spezzano e rendono problematico il flusso narrativo, sul ritrovamento di un oggetto che si situa in maniera indecidibile: esso è riferibile sia al campo dell’immanenza che a quello della trascendenza: “indizi / sparsi ad arte per credere e far credere / una morte sola, irrelata, a un presunto / capolinea della Storia, persino necessaria”. Al periodare vengono inflitti scarti di contesto continui: la vittima è definita sillaba, corpo battesimale, corpo alfabetico. E “in fondo / alla campagna si scorge delinearsi nettamente l’orizzonte del pensiero”. Tutto il reale coincide con il campo investigato, ma qui il linguaggio è strumento d’indagine e vittima al tempo stesso. Strumento intonso, ordinato nitido e al contempo lordo di sangue. Si colloca proprio fra oggetto reale e parola che lo nomina lo scarto, la ferita, quella che non può avere sutura. Anzi sarà proprio tale scarto a porsi come corpo del reato. In ogni caso in questo coesistenza di vittima e di carnefice, il linguaggio tende una trappola anche alla facoltà immaginativa, la quale è presa perennemente in questa oscillazione: “il tetto / di questa camera è trivellato, sta nel palmo / della mano la porzione di terreno edificabile / o lotto catastale al registro della tempia: un vano”. Mai sarà ripristinabile interezza, né individuabile origine, ma fra la realtà percepita e la realtà rappresentata linguisticamente, la scrittura poetica di Donini si accampa tessendo le maglie da cui restare a osservare il burrone sottostante: uno sconfinamento dall’uno all’altro dominio è possibile. Sconfinare si può. E proprio grazie al linguaggio. Rosa Pierno

 

 

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Tu muori nel tuo simbolo, ti spezzi
nella bocca e cadi nella lingua deserta, il tuo
ciottolo riluce di lontano – a volte
in queste notti della specie, l’antico
osso sillabico risplende improvviso
sull’orizzonte basso, tra la fumea dei roghi:
l’anca della voce, il segno che tu ritorni, o disconosciuta,
e sei fra noi come un pane dato, sprecato nelle tetre fami – verrà
la peste che ti ha maculata, la febbre che arse
la fronte spianata del vocabolo, se ne andrà
la lebbra nell’acqua della fonte, il fango dagli orci,
la melma nel riso, il buio dalla fronte.

 

 

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Sporgi nell’aria la testa tatuata, la faccia
tinta nel colore del silenzio, una guancia
azzurra, prima di sparire nel tuo prima – l’era
selvaggia del tuo dire ha sgocciolato sui sassi
il minio che ti annuncia: ti porta via
un nuovo nome macchiato sulla zona nevosa.

 

 

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Hai sulla fronte il diadema dell’ablazione
quel lampo dietro te fratturato
da tutto il resto della vita, quel passo sbarrato
verso il giorno d’altri: tu vivi
protesa sul lembo, sfasato sempre un poco oltre
l’argine feriale, ovunque nei fossi, nei visi divenuti pazzi
fiorisce il tuo scandalo nella primavera in prosa della comunità.