Su Adriano Spatola e Tam Tam

Poetiche cerniere, su Adriano Spatola

Fino a quale punto possono convivere poesia di avanguardia e non?
Fino a quale punto possono essere considerate manifestazione di una medesima entità?
Credo siano questi i quesiti posti dalla ricca e articolata esperienza di Adriano Spatola.
Scorrendo i numeri di “Tam Tam”, rivista da lui diretta assieme a Giulia Niccolai, accanto a interventi visivi e, in genere, sperimentali, troviamo scritture “lineari”, ossia caratterizzate da un uso non estremo della parola.
Un direttore “di cerniera”, si definiva lo stesso Spatola, capace di accogliere espressioni diverse.
Rivolto verso esperienze di radicale neoavanguardia (si veda il notevole saggio “Verso la poesia totale”, Torino, 1978), egli stesso autore e interprete (“Zeroglifici”, performances, eccetera), propugnatore d’istanze libere da qualunque legame, pubblicò, nondimeno, testi nel cui àmbito venivano proposti elementi linguistici di uso consolidato.
Non troppo interessato a definire la poesia, quanto, piuttosto, a considerarne le plurime modalità espressive, il suo fu prezioso lavoro di acuta analisi privo di alcun intendimento di esclusione a priori, poiché ritenne, correttamente, che se di linguaggi si trattava, si potevano operare scelte, ma non istituire gerarchie.
Una lezione di democrazia linguistica, insomma, fondata su profonde conoscenze del fenomeno letterario e, in particolare, di quello poetico: con elegante fermezza, irripetibile nelle sue spiccate peculiarità, venivano accostate esperienze dissimili secondo indicazioni di tendenza, ma non di rimozione.
Si ha occasione, sfogliando le pagine di “Tam Tam”, di comprendere quanto la poesia sia unica e molteplice, quanto le forme, tutte utilizzabili, acquistino valore nell’ uso, nel contesto, come l’ artista della parola sia colui che avverte le specifiche intensità delle espressioni idiomatiche e le connette in maniera più o meno difforme rispetto ai canoni ordinari, come, alla fine, conti soprattutto il suo atteggiamento.
Ne fu cosciente un uomo, un poeta, le cui scelte, tendenti a proporre un oltre che la poesia tradizionale pareva incapace di raggiungere, mostrano, quasi per contrasto, la natura circoscritta del gesto linguistico, qualunque sia il suo genere.
Credo che il celebre pensiero di Wittgenstein, secondo cui i problemi logico- filosofici derivano dall’avventarsi contro gli insuperabili limiti della lingua, non sia estraneo, in qualche misura, al Nostro: non si sfugge, invero, nel caso di Spatola, all’ impressione di avere di fronte un autore che aspira, con genialità, a un dire maggiore, a intaccare, almeno in parte, quell’indistinto, avvertibile, impulso che costituisce fondamento dell’ idioma, ma non può da quest ultimo essere contemplato.
Forse una certa dose di utopia albergò in quell’omone che aveva saputo proporre la corpulenza come grazia, il sanguigno come leggiadro, forse l’ idea di poter andare al di là lo sfiorò e, comunque, lo affascinò, ma la sua estesa, quanto profonda, dimensione intellettuale, la sua sapiente umanità, lo tennero distante da azzardate pronunce, inducendolo a seguire, con noncuranza soltanto apparente, precise (originali) rotte segnate, queste sì in maniera espressa, sulle proprie carte nautiche: in maniera espressa, senza dubbio, ma mai dall’esterno, convinto, come fu, nell’intimo, dell’ importanza precipua, a ogni livello, del concreto farsi di una poesia e di una rivista davvero uniche.
“La poesia non ha bisogno di niente”, ma i poeti, davvero, non possono fare a meno dei migliori tra loro.

Marco Furia