Su Passaggi. Notturni di Ranieri Teti

Se “Salvarsi è stato/ scrivere un grido”, occorre chiedersi come siffatto grido sia approdato alla pagina.
Immediata la risposta: scrivere versi quali i suddetti costituisce già “scrivere un grido”.
Conscio di quanto l’ urlo abbia a che vedere con l’ ineffabile origine dell’ espressione linguistica, Ranieri Teti, nei suoi “Passaggi.Notturni”, ricorre a una sorta di paradosso tautologico: l’ unica maniera di scriverlo è scrivere di averlo scritto.
Poiché nulla viene dato a priori, i costumi idiomatici fanno parlare il mondo, da sempre muto: altre lingue potrebbero non escludere la possibilità della scrittura di un grido, ma quello scritto e quel grido non sarebbero conformi ai nostri.
Come riferirsi ad àmbiti in cui “non dice del nero il bianco”, “l’ andare” “ritorna nelle vene”, sono percepibili “voci del buio”? Cosa si avverte, davvero, in quei richiami non asserviti ai meccanismi dei modelli logici?
Si avverte la presenza dell’ origine, dell’ indicibile nucleo di vitale energia da cui (anche) il linguaggio ordinario deriva, ma che il suo uso continuo, spesso bolso, nasconde, una presenza evocata, invece, dai versi in parola, capaci di condurre a esiti di suggestiva apertura, non di schematica, in apparenza esauriente, chiusura, versi tali da non produrre comune significato, ma da risultare peculiari veicoli d’ inconsuete, affascinanti, forme di artistica comunicazione.
Con offerte verbali rigorose, dettate da scelte espressive, del tutto originali, in grado di aprirsi su scenari popolati da entità enigmatiche affini all’ umano sentire, senza escludere immagini di leggiadra valenza visionaria, il Nostro, affabile e sapiente, testimonia, senza incertezze, dell’ esistenza di spazi linguistici raggiungibili soltanto per poetica via.
Propone, insomma, “una parola abitata/ mentre si cambia dimora”.

Marco  Furia

(Ranieri Teti, “Passaggi.Notturni”, in “Anterem” n° 72, pagg. 63-64)