Elena Corsino, "La casa del padre", prosa inedita, con dipinti di Paolo Corsino

La casa del padre


Erompa che vuole
(“Edipo Re”, Sofocle)

 

                                                                                                                                                               Paolo Corsino

1. Prologo

In questo tramonto di ceneri, un urlo.

La casa del padre ha quattro mura di fuoco. Lungo le pietre serpeggia un drago. O è un geco gigante. Intorno il turbinio del vento sull’architrave. Il tempo affamato di piaghe.

Ora che la casa del padre ha mura di fuoco, “La guerra è perduta”, dice la sentinella. “Nel bosco, sulla rupe alta c’è un incendio. La reggia è caduta.”

Ora che anche la bocca è una pustola di dolore. O antro nero di escrescenze sgorganti a fiotti e sangue amaro. Bocca mai mai mai baciata come ferita cigliosa si schiude sul mondo. Occhio di un folle.

Se con gli occhi inclini al sogno. Perché non ascolti? nemmeno adesso che è tutto fin troppo chiaro e guardi attraverso l’azzurro a intercapedine come se io fossi nel buio, come se fossi solo un suono?

Tra le mura rosso fuoco resterai finché avrai vita. Raggrinzita, incartapecorita, senz’acqua. A centellinare ogni goccia sulla terra secca e la paglia. Senz’acqua per la paura di annegare. In un’onda del mare che credevi senza risacca. Ridi? Dal nero o dalla schiuma bianca che ti prende intorno?

La donna, invece, beveva con la sete di una giumenta alla fontana drappeggiata di carrubo e nipitella dolciastra. Perché fertile è la fanghiglia. Lì lo zoccolo nero schiaccia zolla su zolla. Anche questo è il tempo. E s’inabissa. Come l’anima nel mistero.

 

2. L’antefatto

La testa del dormiente mi guarda. Sebbene abbia occhi chiusi. Il mio pensiero è su quella lama. Sul taglio silenzioso lungo la pelle. Sempre di notte, benché il fuoco sia divampato da meridione, in piena luce del giorno. La sorella non c’era. all’inizio il sangue non sgorgava. Ma poi più profondo fu il taglio dell’acciaio. L’arma era quella che stava nel primo cassetto.

Se la casa avesse voce parlerebbe. Con lingua atroce. Io ha appiccato l’incendio. No, non direbbe questo. Più sapiente è il fuoco. La casa non ha mai detto niente. Sa, ma è sempre stata muta.

Al principio il fuoco aveva contrassegnato il campo, tra i pruni selvatici i lecci i mandorleti, segnando il perimetro della dimora antica. Se il fuoco divampa con misura, l’uomo comprende. Ma quando è dentro, alle pareti, dietro alle porte, sotto i letti, nelle anse delle vene e non lascia cenere né detriti, ma brucia, soltanto brucia che lo diresti un’inondazione, quando tutto rimane ma è distrutto. Niente ha più nome.

Ancora non è l’alba, s’odono passi tra il corridoio e la cucina. La donna oltremarina dorme. Ha la sua quiete quando non veglia e non dispone con gesti esatti il mondo delle forme diurne. Senza dolore nuota nel sonno, dove infine vede. Lei che vede ogni cosa solo nel sogno. Io tace, acquattata sul letto – conosce il sussulto rauco del primo cassetto. Resta in ascolto.

Il padre è all’incrocio di tre strade.

Con pungolo a tre punte si scagliò allora sulla terra madre e sul mare, sulla placida vacca e sul pavone, sulla casa si scagliò e su quanto avesse generato colui che del Caos tagliò il desiderio e il bianco squarciò finché non lo separò dal nero. Il suo dente spezzò il Verbo di cui era padre e ne sputò l’eco.

 

3. Nel nome del figlio

Fu al mio ritorno, fu lungo la strada. Ricordo. Il vecchio andava su un carro con i suoi servi. Mi scostai sull’orlo e ristetti fermo a cavallo. Ma lui correva per la sua strada. Lì – non chiedermene ragione, – mi montò il mio nome. Il nome di chi ha gonfi i piedi e pesanti. Mi pulsava quel nome alle tempie e scorreva come luce di lama. Per non dimenticare, per essere presente, strattonai le briglie della bestia impaziente. Sapevo da dove venivo, da lì fuggivo. Un richiamo. Allerta.

Ma fu lui che mi gettò nell’onta. Non fece niente. Silenziosamente rise. Allora più penoso mi fu il mio nome. E ridendo col carro mosse contro il mio cavallo. Per saggiare la bestia, per vederne la reazione. Mi sorpresi più veloce del vecchio. Fu un niente. Io andavo lontano per non fare del male, per non uccidere il padre.

Dannata risata del vecchio. Mala sorte la mia. e la sua. Mala sorte chi ignaro del figlio contamina la voce paterna. Non vedeva il vecchio che potevo essergli figlio?

Era bianco mio padre alle tempie. Occhi fissi su quella bocca nera. disumano antro. Diede un gran grido. Accecante antro umano di disarticolate labbra spalancate. Senza dire niente.

                                                                                                                                                Paolo Corsino

4. Nel nome del padre

Io respira. l’essere è qui, senz’altro luogo. come nel sogno.

Colui che parla sconnette le parole – lapilli di uranica esplosione, o vulcanica.

Con gli occhi arrovesciati all’indietro sto nel buio, come nell’acqua, ma è l’aria che dissolve il principio: quella metamorfosi del fuoco che fu grido e poi respiro. Ecco, io respira. Finalmente è straniero. Senza padre, io, che ne ebbi due, due e pure un Dio! Senza patria, se non quella folle dei presagi e degli indovini, la patria dei padri, e dei padri dei padri che mi guardano dai loro fuochi azzurri e dai marmi. Patria della parola fratturata, in modo che nel silenzio accada.

Nove monosillabi ciechi. e un bambino è gettato da rupe alta.

Rotola una palla gialla sulla superficie inclinata, di vetro. Un essere umano cammina. In bilico, senza far rumore. Un tocco di colore, senza senso nel rogo. nell’acre odore. Solo un tocco di colore. Che vuole da me costui? La città di Tebe? Maledetto sia mio figlio con le lance e le sue sette schiere.

Io scelsi il buio del senza-terra, l’oscurità senza ore. I segni che col bastone traccio mi sono solo d’intralcio.

Non vedono per te neppure le tue parole.

Nel buio brancolo, ma forse procedo. Lo spazio è questo. Che stia in piedi o sulla terra disteso. È nero.

5. Una voce che si leva nel paese

Imperdonato cieco che in irosa curiosità1 tradisti la tua casa e alla legge della tua condanna ponesti il sigillo. ora vaghi condotto da donna, figlia tua e sorella, che talamo non conobbe, ma tombe sulla terra. Piango su di te, mendico mio re, e fratello, che mai quiete avrai finché vivrà la tua legge. Legge di paura del sangue che scorre nel corpo di un bimbo. La legge sul tuo tempo.

Nei boschi, quando generasti, fui sulla soglia. Non udisti la voce che disse che il tempo è insonne vigilia2? Notte di veglia è la vita. Povero te, che sazio della tua parola dormisti e sonnambulo ti levasti con in mano un coltello.

L’uomo manduca il mondo e non lo vede.

Di te non resterà che l’eco affinché mai si scordi che sei assassino e agnello con in sorte lo stesso destino. Senza più strada né via d’uscita. Il ritorno altro non è che la conta dei morti. Non ti voltare! Non è indietro che sta il tuo principio. O follia, follia, follia di parola.

Solo ti precede colei che si fa luna e nutritura. Ti generò alla terra, nell’estro del suo furore, nell’alba della sua ombra. E ti diede forma infinitesimale. Vuoi credere d’essere senza misura? E ti genera ogni attimo ancora. nell’arca del dolore. Nel cielo azzurro tra le fasce ti dà vita, e fra le pietre.

 

1 Sulla “collerica curiosità” di Edipo si veda F. Hölderlin, Note all’Edipo, Milano 2008. trad. it. di T. Cavallo.

2 “Vigilia, insonne vigilia/ il tempo“, Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1454-1455, trad. it. di Franco Ferrari, Milano 2004.

 

Elena Corsino (1969) è traduttrice e insegnante di italiano a stranieri. Si occupa di traduzione letteraria, in particolare ha tradotto opere di poeti e scrittori russi, tra cui M. Cvetaeva, O. Mandel’štam, I. Brodskij, F. Dostoevskij. Sue traduzioni sono apparse nelle riviste “Poesia” e “Anterem”. È autrice delle raccolte di poesia Le pietre nude (2005), Nature terrestri (2013).