Francesco Marotta, “Esilio di voce”, Smasher 2011

scrivi strappando chiarori di pronome

dalla voce la luce malata

che s’innerva al rantolo

di un verbo scrivi con lo stilo

di ruggine che inchioda l’ala

nel migrare anche la morte

che sul foglio appare dal margine

di sillabe di neve s’arrende alla caccia

al sacrificio necessario

dell’ultima lettera superstite

 

 

 

Nell’ultimo libro di Francesco Marotta “Esilio di voce” Smasher, 2011, risalta, immediato, il forte motivo della scrittura ingaggiante con la realtà una lotta per l’egemonia, poiché si direbbe che il senso appartenga soltanto alla scrittura, a una realtà artificiata, dunque. Innanzitutto è una scrittura che s’accampa su qualsiasi superficie: pelle, occhi, carne e si appropria di vocaboli che appartengono alla natura: argine, margine, sentiero, pietra, acqua, cielo. Ma soglie, ombra, specchio in qualche modo ne fanno echeggiare come un falsetto la nuda sostanza, pura inconsistenza, denunciandone la falsa legittimità ad accamparsi in vece del reale. Già in difficoltà, il linguaggio viene aggredito dal poeta che ne mostra con grande tensione le lacune, le fallacie, gli scarti dal senso comune in agguato. Torsioni imposte al linguaggio non ottengono che di mettere in nuce fatiche, eccedenze, discordanze e, forse, un’offerta di silenzio. Ma anche il silenzio, come pausa in ovattata neve, pur se “accordo muto”, non è che misero traguardo. La guerra non vede una sola battaglia, ma molteplici vittorie e sconfitte. Il poeta denuncia la supposta vittoria del linguaggio sul reale, e in fondo l’insensatezza della pratica della scrittura rispetto all’esigenze di un’esistenza che richiede di essere vissuta e non scriversi addosso. Eppure, il linguaggio non è il nemico, lo si vede nella raffinata elaborazione poetica che non disdegna assonanze e rime sparse, quasi inattese, le inarcature frequenti, le variazioni incessantemente cercate, pur nella ripetizione di alcune parole-chiave, le quali fungono da boe per il reticolo tematico, il tutto nella forma della metrica libera. Tale cura, affettuosa e carezzevole, ci restituisce una voce interiore accorata e umanissima. In ogni caso la tessitura che si va stringendo forma un tappeto sonoro in cui i termini della scrittura sono frammisti e oramai inglobati con i lessemi appartenenti all’ordine naturale e forse l’impossibilità di distinguere fra di essi potrebbe costituire l’utopico sogno di Francesco Marotta. Se è certa la disfatta è anche salvo l’onore data la resistenza attuata tramite tale metafisico esercizio, in qaunto l’assenza appartiene alla totalità e riduce ogni dettaglio al nulla. La stretta rete ha trattenuto pagliuzze d’oro in sospensione acquorea e ora bagliori indicano l’esistenza della sostanza così strenuamente cercata, impossibile da individuare altrimenti che con la scrittura, naturalmente, poiché al vuoto, a “ciò che arde senza pensiero” si oppone proprio l’oscuro denso corpo della scrittura e non è detto che non sia essa la via salvifica da percorrere per non diluirsi nell’assenza: “l’ultima possibile nascita d’indivisa appartenenza”. (r. p.)