Marco Ercolani, “Sentinella”, Carta bianca 2011

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Disegno sul muro con temperini spuntati, città inutili e favolose,

composte di nuvole o di foglie. Di quelle città, dove sono sveglio

e dove dormo, sono io la sentinella.

Le vedo, circondano il precipizio: sono montagne reali.

Non conoscere le risposte e non comprendere le domande: sapere.

Ogni realtà rinvia a realtà ulteriori, tangibili come la polvere nell’aria.

Se la luce che arriva sul foglio fosse tanto forte da cancellare le parole...

 

 

 

Sebbene le forme aforistiche, brevissime, sospese nel bianco siano come nebulizzate intorno a un fulcro che non si individua, pure i lettori possono puntare saldamente i piedi su alcune parole che si ripetono e che servono per tenersi ancorati durante la lettura al fine di ricostruire una griglia di riferimento. Non cesellate, ma quasi gettate, a tratti legate a una rifrangenza casualissima, ricche dell’humus dell’ambiguità che colloca i periodi non in un costellazione, ma in un’aureola che si espande. Eppure, le frasi sono raffrenate, più che tenute insieme da alcune affermazioni assertive: “ha il dovere di”, “nessuno deve esserlo”, in ogni caso da tempi verbali che sono perentori: solo presente e futuro, verbi nominali o verbi che annunciano profezie, verbi che aprono al progetto: “la sentinella aprirà le porte della casa che custodisce” o infiniti che valgono come comandamenti: “Custodire ponti da cui erompe l’acqua violenta dei fiumi”. Ma ecco ci stiamo avvicinando, ora ci sembra di distinguere più chiaramente il modo colloidale con cui le frasi stanno assieme: “Vivere dentro pagine che tornano come ossessioni”. Sarà il libro in cui risuonano i mille libri “venuti” anziché a venire (parafrasando Jabés). La coscienza dello scrittore è completamente immersa nella scrittura. La presenza costante di riferimenti a opere d’arte non è che uno specchietto per le allodole, a nostro avviso, poiché il soggetto del testo qui è esclusivamente la letteratura e le definizioni presenti, più che parlare di arte, inseguono solo le scritture che ne fanno uso. Questa presa salda sulla materia scritturale è di per sé il soggetto nemmeno paludato di un iperspazio letterario, di una camera degli specchi in cui il lettore è presto preso dal vortice, in cui non deve cercare l’identità dello scrittore, ma della scrittura, se mai fosse possibile. Tale è la strana, efficace macchina messa in piedi da Marco Ercolani, in cui l’autore si assume l’onere di tessere la spola fra le scritture ‘altre’, di essere lo scompaginatore dell’ordine altrui, ma solo appunto per rilanciare la scrittura. Non è escluso lo svuotamento di senso per dare maggior risalto all’attività della scrittura come l’autore stesso, annuncia: “I libri si rispecchiano l’uno nell’altro” e “ Gli stili sono strumenti accordati da interpreti diversi”. A noi misurare, quanto si sia distanti dal libro leibniziano. Anche se qui non è importante la totalità, ma il metodo. (r. p.)