Primerio Bellomo, “Primo vere”, Enchiridion 2011

prossima l’alba

cede al giorno la notte

al chiaro il sonno

 

si smemora nel vento

al primo verde il bosco

 

 

*

 

s’apre al mondo ed è

già fiore aria vento

ed ombra il muschio

 

lutto e segreta gioia

il lasciarsi accadere

 

 

 

Ciò che si palesa in forma oppositiva: la notte che cede il passo al giorno, il buio che si dissolve al primo chiarore dell’alba, è inscenato in un canto dove il passaggio da un estremo all’altro è attuato con graduali trapassi. Le tinte si scuriscono, acquistano viraggi sinistri, l’oscurità non si spegne, grava indelebile: “fu sorpreso dal / lato oscuro del vento / dal suo cercare // nell’abbraccio dell’ora / l’alba di un altro cielo”. Fra le fibre del testo viene a insinuarsi un granello, qualcosa che provoca fastidio, disagio e una sensazione di mancata aderenza. Sono parole che hanno un carico filosofico, che s’innestano, estranee, in quella che era una dichiarata descrizione naturalistica dell’alba o della primavera. Parole che appartengono a questioni problematiche, disarcionanti: ‘impensato, ‘assenza’, fantasma, ‘oblio’. Come in una scatola scenografica in cui si passasse da un sogno a un incubo, i colori sono radicalmente cambiati, ogni elemento appare gettato o macchiato dall’oscurità, desostanziato, percettivamente incerto. La trasformazione è tale che le cose assumono altre valenze: “aggruma e scioglie sensi / veglia di nuovi segni”. Eppure, di fatto, nulla sembra veicolare nuovi significati, anzi gli elementi in scena appaiono deprivati persino di ciò che originariamente avevano, ove parrebbe, pertanto, che il senso, quando sia univoco, costituisca un pericolo per la polisemia.

Nella seconda poesia che compone il brevissimo libro, il giardino zen - seconda scenografia la chiameremmo - tutto sembra già estenuato: ‘il niente del cielo’, ‘arreso al suo finire’, ‘senza più ombre’, quasi un meccanismo con cui risalire all’origine, immaginare il momento primordiale, quello in cui ancora non è apparso il senso. Fallimentare esito, però, testimoniato da un’immagine ancora naturale: “leggi nel bianco / l’enigma del vento / troppo vasta l’aria / ala della distanza”. La natura resta una risorsa che, a prescindere dalla possibilità d’immaginare l’origine, contribuisce a facilitare una percezione molteplice che diventa antidoto bastevole al fine di ricreare il mondo, naturalmente non più naturale, ove ‘scintilla’, ‘fuochi’, ‘stimma’, ‘seme’, ‘varchi’, ‘sangue’ si oppongono all’impensato e si radicano nel senso con la tenacia e l’imperio di un atto volontaristico. (r. p.)