Michele Porsia, da “Bianchi girari”, Giulio Perrone Editore, 2011, nota critica di Rosa Pierno

Scegliere come antagonista della parola la morte è una scelta di campo che lascia all’interno dell’insieme scelto l’esistenza tutta. D’altronde, già Epicuro aveva detto che se c’era lui non c’era la morte e viceversa. Questa sorta di limite, di alterità, serve più a valorizzare l’esistente che il nulla. Porsia accosta ogni oggetto e persona con una delicatezza che diviene raffinata già solo perché rara: le briciole, i posacenere, i cucchiaini valgono in quanto segni disseminati nello spazio domestico e condividono o simboleggiano il destino umano. Nonostante il linguaggio sia sempre in campo, incessantemente nominato il suo potere, non è esso a dominare con la sua legislazione. Solo a sprazzi. La questione sembra essere aperta e tale rimanere. La lotta ingaggiata con la parola per trascinare la morte fra le cose vive né è come l’emblema: “- io con la morte ci faccio l’amore - // l’amore con la morte in allitterazione”. Ma la parola sembra avere anche una sua materialità: funzionare come residuo: qualcosa che resta dell’uomo pur dopo che è sparito. Un’archeologia della parola che fa rinvenire, ma per un istante solo: “bocca a bocca respira / per spirare”.

Dapprima, pare che non si attui nessuna sostituzione tra le parole e gli oggetti o eventi dell’esistenza, pare che scorrano su binari paralleli, non intersecantisi nemmeno all’infinito: strana geometria non-euclidea che vuole infilzare un’unica meta, di volta in volta differita o perduta: “E mentre il significato sfugge, appare chiaro / l’alone della luce / l’ostensione di questa sindrome interna”. Il senso viene equiparato a una slavina: “ - le parole e le rocce contengono un linguaggio / che segue una sintassi di sfaldamenti e di fratture”. Se ogni parola “contiene il proprio vuoto”, in ogni caso l’equivalenza con la morte non è congettura da doversi accettare in maniera dogmatica. L’autore sembra ricercare ciò che renda inconfrontabili i due oggetti che ha posto in opposizione: nello svolgimento della sua ricerca assistiamo, a volta, anche a tentativi di paludamento, di mimesi (si pensi ad alcune poesie visive all’interno del volume, ove la parola gingko biloba, ad esempio, si trova in un testo che ha la forma di tale foglia). Persino la voce viene coinvolta in questa sorta di confronti, di ricerca di somiglianze formali o sostanziali: “dei segni contorti sul bloc-notes, / un viluppo di bianchi girari, figure fitomorfe / della voce”. Ma, viene alfine raggiunta una sorta di ricomposizione tramite visioni in cui collassano forme vegetali, culturali, esistenziali, materiali di risulta, reperti archeologici, epidermici proliferando uno dall’altro incessantemente: “ Parola / esci come parola / dalla radice / o dall’osso, la costola del libro”…. (r. p.)

 

Dalla sezione Bocca a bocca

 

(è un prestito di voce

questa cauzione da lasciare tra le pagine.

 

Un palmo dallo sterno, il torace scoperto,

il corpo morto

sotto il massaggio cardiaco.

 

E riprende vita per un istante solo,

bocca a bocca respira

per spirare)

 

 

Dalla sezione Il niente che è

 

ecco la scomparsa diurna,

un diluvio sceso come in ogni poema nelle cavità terrene,

una restituzione

del suono tenuto tra le costole.

Fiato

lasciato sulla mano, la sinistra, la pietra fredda

e un battito d’acqua a riempire le lacune.

E’ stato un rito di passaggio

 

 

Dalla sezione Muschi

 

X.

(...)

Parola

esci come parola

dalla radice

o dall’osso,

la costola

del libro,

cresci

lo stesso

sottopelle,

se non puoi salire

esci e cresci in sotto

 

cresci comunque cresci

 

 

Altri testi da questa raccolta, allora inedita e in prima stesura, pubblicati in “Carte nel vento”:

https://www.anteremedizioni.it/montano_newsletter_13_porsia 

 

Michele Porsia (1982). La prima raccolta di poesie, Sintomi di Alofilia, è stata pubblicata dalla Giulio Perrone Editrice nel 2009. Dopo “Bianchi girari” è stato compreso nell’antologia “Poeti della lontananza” edita da Marco Saya Edizioni.