Gian Paolo Guerini, Lì vidi: nero, patio, riso

Gian Paolo Guerini 

lì vidi: nero, patio, riso 

Testo poetico 

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percorrere le vele velate mare e canto di sogno velato urge al vento mirto esiguo che vento urge guidare sentirlo alitare in sere spettrali orme cominciate con triste passo timido simili a fuochi premono al vento simili a sguardi partono come volti arresi vidi la vista che più non parlava sollevare luci afone come fuggite telare giorni movendo piume lucenti nell’abisso in cielo volate ali rotte lodare le mani roventi e ciglia ispide ossi e preghiere si spiegan come manti nella sera arsa follia presso elmi come campane alitano mostrando oscuri atti a dir la cenere (...) 

Nota critica di Giorgio Bonacini

   Scriveva Roland Barthes a proposito di Sollers: “E’ tempo di raccontare null’altro che la parola infinitamente vasta che giunge a me”, e io credo che sia proprio questo che Guerini fa quando scrive. Egli, più precisamente, non racconta, ma “dice” le sue parole senza fine, ed è molto difficile far comprendere la sua opera se non la si legge materialmente.

   Il testo, tripartito, si presenta come un insieme sintagmatico fatto di cellule (frasi, parole, fonemi) apparentemente indissolubili fra loro, ma se la lettura avviene (come deve avvenire anche nel silenzio mentale) nella sua piena oralità, allora qualcosa si apre: “amori senza luce sassi morti d’aculei torti vòlti dentro tristi ascolti...”, in un flusso continuo, una catena significante di richiami in cui la parola, quando si fa voce, trova in sé il senso del mondo e del pensiero. E lo trova trasformando la lingua alfabetica denotata in un corpo di rappresentazioni e di continua riflessione su di sé, capace di “vedere la vista che più non parlava sollevare luci afone”; dove si evidenzia la capacità della parola “incorporea” di diventare oggetto sonoro fisico, con l’uso di tutte le possibilità fonosillabiche, timbriche, fonematiche che la lingua italiana possiede. Fino alla sonorizzazione pura, con sequenze foniche (“sem ques cos... tav tuc tel... inav ostrev ‘nsuov...”) in cui lo spezzettamento delle parole si avvicina moltissimo all’esperienza di poesia fonetica lettrista, aggiungendovi però il senso di un movimento, di una gestualità potenziale ma intrattenibile.

   Insomma, Guerini scava dentro la lingua rendendola concreta e liberan- dola dal discorso, alla ricerca di un nuovo intreccio tra il suono e il senso, per arrivare a vedere “una voce arar la chioma torva della gola impregnata d’erba e fiori sventolar sillabe estive”.

   Un’ultima notazione che si evidenzia nella struttura in tre parti, ognuna delle quali termina con la parola “stelle”, è un forte (e direi basilare) ri- chiamo dantesco. Tutto il testo è permeato profondamente, nell’andamento ritmico e vocale dalla Commedia; si sente la carne delle stesse parole, che si scoprono sparpagliate e spezzettate in varie parti del testo, e a volte an-  che interi versi uniti in un gomitolo (ad esempio l’ottavo canto del purga- torio“lotrepassicredochiscendesseefuidisottoevidiunchemiravapurmecome- conscermivolessetemp...”) che non necessitano, però, di essere sciolti, per- ché tutto deve scorrere, danzare, sventolare possibilità d’ascolto fluide nel tempo e nello spazio; azioni di parola certamente estenuanti, ma mai insignificanti, mai abbandonate, mai lasciate senza autonoma personalità.