Gaetano Ciao: l'incorporeo

(ITINERARIO TRA CORPOREITA’ E IMMATERIALITA’) 

Ciò che corporeo non è, non può esulare dal corpo: non può farne a  meno, non può trascenderlo. L’assenza dell’uno sarebbe l’assenza dell’altro: il nulla.

Prima che un corpo muoia, ciò che è incorporeo si estende ad altro corpo, o a più corpi. Tale estensione non conosce limiti, né di tempo, né di spazio; è possibile anche dopo l’esistenza del corpo, nel quale l’incorporeo si è generato.

Esso si espande, anche coniugandosi con l’incorporeo in altri corpi convivente.

Se ciò che incorporeo non è finisce, ciò che corporeo non è vive, e si estende e si moltiplica.

La parola ha in sé l’uno e l’altro: la corporeità che muore, e l’immateriale che vive; tale è l’incorporeo del corpo dell’uomo. L’uno non può sussistere senza l’altro. Così vive l’uomo.

Unità inscindibile, indissolubile, inconsolabile.

L’uomo, come la parola, è questa indivisibilità.

E’ l’indiviso, come la parola. 

L’estensione dell’incorporeo da un corpo all’altro, non è senza sofferenza.

L’incorporeo, nella nuova sede, deve trovare la sua giusta collocazione;  per sussistere, deve essere assimilato nell’indiviso dell’unità corpo-incorporeo.

All’inizio, esso è il nulla, l’estraneo, lo straniero, il dissimile, l’incompreso.

L’assimilazione determina la sofferenza, inattesa fino a che il suo permanere non diviene esso stesso elemento dell’unità, che non è mai pacificazione dell’indiviso 

Non è possibile la vita dell’incorporeo senza riconoscere le sue origini nel nulla che è nel sacrificio del corpo, nel pianto che è al confine dell’indiviso.

L’immateriale, immanente nel corporeo, emergente dalla materia, è l’altra parte dell’uno. 

Occorre scavare nella morte ciò che è, ciò che non muore: l’incorporeo.

Ciò che è, ciò che non muore, vive in ciò che muore.

L’immortale abita il mortale. Esso adorna l’incompiuto della sua dimora. Esso stesso è l’incompiuto, l’incorporeo nel corpo, l’indiviso per sempre.

La locazione può essere temporanea. Spesso esso occupa altri spazi, rimanendo inquilino di se stesso, come se fosse nella dimora originaria. Spesso l’abitazione diviene piccola, insufficiente, per ospitare la sua incorporeità. Ma esso non può sottrarre tutto lo spazio al corpo, suo coinquilino: cresce su se stesso, quanto più si espande; i suoi confini, ospitali, imprecisabili, vanno oltre la sua dimora: sono quelli imprevedibili dell’apertura all’altro, all’insperato, che non ha confine. Ciò si verifica anche in tutti gli altri corpi che, avendolo ospitato, ne sono divenuti compartecipi. Partecipi dell’incorporeità. 

Privato surrettiziamente della corporeità, privato dell’incorporeo, l’uomo perderebbe la sua unità: in tal modo non potrebbe mai giudicare se stesso, né altri potrebbe farlo per lui. In realtà il distacco, la separazione non è possibile. Non sarebbe equo il processo di valutazione in assenza del corpo. Corporeo e incorporeo non possono essere scissi. Occorre giudicare l’indiviso, sempre.

Il giudizio sull’indiviso non dovrà attendere la fine del mondo, la  fine dei secoli. 

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L’umanità dell’uomo è l’indiviso di corporeità e incorporeo.

Il giudizio su ciascun uomo, dopo la sua morte, sarà determinato anche dall’incorporeo trasmigrato in altri viventi, ossia dal valore intrinseco da esso apportato al mutamento e alla crescita della loro umanità. 

Il confine dell’incorporeo è nel corpo stesso dell’uomo, così come quello del corpo è nell’incorporeo. Il corpo, come materia, cerca di superare la linea di confine, ma l’incorporeo resiste.

Il confine è comune a entrambi, ma non è fisso, né prestabilito. E’ mobile, ed è l’uomo stesso, ciascun uomo, a determinarlo per se stesso.

Più si addentra il confine nel corporeo, maggiore diviene lo spazio dell’incorporeo, e viceversa: maggiore diviene lo spazio del corpo, minore sarà quello dell’incorporeo. Mai però potrebbe scemare la corporeità, mentre è possibile il contrario, la mancanza, l’assenza dell’incorporeo in un corpo che in se stesso ha il proprio confine. Un confine che segna il nulla, il nulla del corpo, ma anche la possibilità da cui l’uomo può partire, o ripartire, per cercare l’incorporeo e farlo proprio. 

Incorporeo e corpo coabitano. La coabitazione non è semplice compresenza, ma condizione perché sul corpo possa innestarsi e crescere l’incorporeo. Per questa ragione la loro coesistenza si configura come indiviso, mentre l’identità dell’uno resta del tutto differente da quella dell’altro.

La loro separazione definitiva avviene solamente con la fine dell’esistenza del corpo. L’incorporeo, però, come si è detto già, sopravvive componendosi con l’identico, o col non dissimile, di uno o più corpi.

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Dell’incorporeo dell’uomo è parte, come elemento costitutivo, la parola, intesa come arte e cultura. La sua coabitazione col corporeo della lingua, quella comune del parlare, è solo apparente. Parola e lingua non coabitano, il loro confine non è comune.

La parola, di fatto, ne spezza in più punti le catene che sono causa di soggezione e di asservimento dell’uomo, e ne circoscrive il potere di annebbiamento delle coscienze.

L’una e l’altra hanno spazio diverso: quello della lingua è chiuso; in realtà non muta molto, resta definito nelle sue stesse dimensioni, che sono identiche anche se sono mutabili i componenti linguistici. Il mutamento è determinato dalla loro usura e/o da ininfluenti incrementi lessicali o modifiche formali, esteriori. La lingua, per l’arbitrio dell’associazione significante-significato, non può esprimere la realtà, quella vera, l’incorporeo. Solo la poesia, solo l’arte, può indicare i sentieri difficili, impenetrabili, spesso impercorribili del vero, dell’essere che si fa, identificabile nella sua impossibile identificabilità.  

Lo spazio proprio della parola muta e si espande su se stesso. La parola, nel proprio autonomo e libero farsi, crea forme nuove e vie di comunicazione ignorate, che hanno transiti esclusivi e possibili solo nell’incorporeo, di cui moltiplicano e amplificano l’area della conoscenza, quella che non ha confini, come quella aperta all’altro. 

La parola è l’indiviso di linguaggio e reale: nell’indiviso si manifesta l’impenetrabilità dell’essere, ossia una realtà in cammino. In essa linguaggio e reale, incorporeo e corporeo, sono la stessa cosa, si identificano; inoltre, nella loro indivisibilità, sono mutevoli e vari. 

La lingua invece crede di potersi identificare col reale del mondo e delle cose che sono fuori di sé, e non s’avvede che tutto ciò che non è in sé, è del tutto privo di autenticità. E’ falso, proprio per il presupposto arbitrario di identificazione del segno verbale, o di altra natura, con la cosa. 

La lingua, chiusa nei suoi limiti, fissi, immobili, rimane tale. Non possiede porte che consentano l’apertura all’altro, all’imprevedibile, al non detto, all’in-nominato: il disertore, l’in-fra. Ciò comporta incomprensioni e chiusure invalicabili tra le genti, sparse per il mondo, che hanno smarrito il senso originario del rapporto incorporeo-corporeo.

Occorrerà trovare altri itinerari, altri tragitti, che permettano incontri possibili, accettabili, ravvicinati all’indiviso.

                            

03.03.2007