Giorgio Bonacini, Oscurità II

Fare poesia è avere in mente che il corpo (anche il corpo delle cose) non      è sempre un linguaggio catturabile, ma nemmeno una dimenticanza pura e semplice; il linguaggio del corpo esiste anche in funzione di un corpo di linguaggi da cui attingere per scrivere qualcosa: chiamarla “poesia” è solo una questione di modalità contingenti. 

   Nel caso specifico (l’ingresso mentale, ma anche simbolico, nell’uni-verso della poesia) è l’incertezza conoscitiva, l’indecidibilità di una risposta. Alla fine del percorso, che cosa so dell’immagine del mio corpo? Forse solo un sentimento di astrazione o la fluidità di un linguaggio martellante. 

   La parola sale da una congiunzione all’altra e non si arresta: dimentica di essere al servizio di un pensiero. Posso chiedermi, però, se la poesia sia in grado di sopportare il peso di una dimensione fortemente cognitiva. In altre parole: qual è il senso della metafora nella logica di questo mondo? 

   Wallace Stevens scrive (e dunque scopre) che “Agli antipodi della poesia, buio inverno,/ quando gli alberi brillano di ciò che li spoglia,/ il giorno eva- pora, come il suono udito da un malato.*1 Io ne convengo, senza per questo dogmatizzare un senso o limitarmi a quella forma. 

   Dunque il paradosso è estremo: la poesia può fare a meno del mondo, ma il mondo non può fare a meno della poesia. E ciò senza ironia, perché il mondo non lo sa e se ne infischia della mente poetica; e ancor di più si disinteressa del corpo poetico e della sua risoluzione nella parola. Ci si può ammalare, si può morire per questo? 

   In ogni caso, pur nell’affaticamento, si affronta l’impresa (le impennate, l’instabilità di un appiglio...) perché il mondo della poesia è convincente: è un atteggiamento teorico, vivo, un modo di fare pensiero che non nasconde le sue difficoltà, ma le risolve in un’astuzia del corpo. 

   Così come il silenzio è un’astuzia della parola, il mondo è un’astuzia della poesia. Qualcuno dice il contrario. E’ vero anche questo, ma nello stesso modo in cui, per una scala, la salita e la discesa sono la stessa cosa. Dipende dallo sguardo o, più naturalmente, dal salire e dallo scendere. 
  


   Certo, si può essere ancora più sottili e riconoscere le disfunzioni di una simile idea: ma è la necessità di non salvarsi da niente a produrre i motivi del senso. In questo modo è possibile allora affrontare con lucidità anche il sentimentalismo, anche una certa pateticità.

E se in tutto questo si parla di vivere, allora la sua pertinenza conduce lo scrivere ad una  valenza  poetica: l’apparente  immobilità dei versi  funziona

perché scorpora ogni aggancio con la realtà (ma non con “il reale”, come  già detto). Ciò che rimane è il giudizio: e questo ha a che fare con i feno- meni possibili, non solo quelli esistenti. 

   In definitiva, il rapporto tra il corpo fisico presente e la fissità o fluidità del linguaggio appartiene sempre più alla metafora in sé, alla sua letteralità: che è la consistenza di una finzione recuperabile all’interno di una retorica culturale, non strettamente artistica. 

   Ma c’è dell’atro: così come spesso non è convincente il racconto del sogno (meglio meditare sulla funzione del sonno), anche  il corpo, nella sua estesa profondità, viene indicato enunciando “l’interiorità, senza concedere l’intimità”.*2 Ciò significa concentrarsi sulla poesia per rivelarne il pensiero, forse la fonte originaria, se mai esiste.