Laura Caccia, Poesie inedite da “Fame di voce” (1999-2003)

Da questa luce precisa di  marzo,
il suo calibro di sete: l’inconoscere dell’alba,
il respiro che tace. E questo altrove

comune, strofe immutate di cieli
che i cieli non conobbero. Ora che è stretto il grido
a dirci di ogni cosa prossima,

impensata, la proprietà del buio, fauci ai vinti,
labbra iniziali e ciò che fugge
dentro le ossa, ai bordi del silenzio. Gravita  

lo sfondo sui ripiani a piccole
dosi, nell’esortazione del sangue la  nostra
ombra felice. A volte saranno

dintorni colmi al di sotto
della pelle, frammenti di ciò che non ha difesa.
Tra le contraddizioni ai cardini

del viso dove cerchiamo l’inizio e il trasalire,
appena dubbio, stupore.
Un’esitazione di terra e stelle flesse,

rarefatte, suoni dall’udire
asciutto gettati al centro del principio.
Nel sipario di una screpolatura,

come nel sonno che interrompe le stagioni
trattenendo a stento il fiato.
Non una voce, al capogiro improvviso

inatteso d’essere rogo
d’attrazione, sortilegio d’abbraccio
alle notti inarrese.

……………………….

 

Sarà immersa nel posarsi e lievità
nell’abbandono dei segni, fino al chiarore
che non dà tregua ai morti,

ai mari verticali. Sulla pelle a risalire
le trame degli occhi, in un gesto che accolga
mutazioni, tendini di luce

e pioggia a esserne grati.
La finitudine al suo inizio, così legame insieme
e ulteriore, fino a che il verso

tramuti il vuoto tra le ceneri, l’ora divenuta
erba, l'ultima ferita a vegliare
la voce. Perché

abbia tempo umano
e moltitudini nel balbettio sulle labbra dove
si addensa ogni origine.

Dai vetri appannati confonde
i luoghi, le similitudini, trattiene tutti noi dentro
il suo respiro a sfigurare

le ragioni che gravitano in prossimità dei sensi.
Dipende da quanto è essere
luogo e identità oppure

il sonno che balbetta le sue
visioni. Così piega a simulacro ogni fugacità,
tessitura perenne

al guscio di stagioni
ruvide, stupite. Tiene il dire sospeso, l’ossido,
il fiato corto, l’anima in festa.

……………………….

 

Scrostavi il buio a freddo
e spatola, le figure sghembe, le moltitudini
accanto. La notte trascinata

tra le pietre e gli archi a tutto
tondo al lievito d’udito, lungo i sentieri impigliati
alla risacca dove vegliamo

segni, controfigure ai vivi come grammatiche
inquiete. Saranno germogli del mattino
gli alfabeti che si rifrangono

nei corpi a confondere
ogni cosa da sempre, dove non appare.
L’oltrepassare è la tua ostinazione,

non è solo delle stelle spaesare
distanze e sguardi inadatti, così che intoni tutto
il nostro affidarsi. L’ora

è polline, una faglia dipinta al desiderio
d’essere soglia e a braccia
l’accadere, uguale

l’occhio che intorno ama.
Dentro di noi sarà traccia, apparenza al suo
distare, accanto benché 

minuscola e riverberi
e tuttavia sia, la morte sottratta alla sua grazia.
Nelle braci di un canto

retrocede senza altra
tenebra che la voce a mani nude, l’erba
in equilibrio sul vuoto.

……………………….

 

Le parti del corpo, ognuna
con la sua durata: la testa ferma in questo istante
mentre le gambe camminano

tra i secoli. Dentro bozzoli
di stirpi, estremità  ovunque disperse, qualsiasi grido,
le figure chiare, le anime

blasfeme. Se l’approssimazione
nasce al desiderio, una pronuncia cresciuta
nei canoni dei boschi,

negli esiti umani, prima che si smarriscano i gesti,
le andature. L’altrove in noi così
accanto da non metterlo

a fuoco, a sorprenderne
il battito sarà vana la cura, uno spolvero disperso
di materia dove l’impensato

sorriderà, lievito al verso nell’assenso del dolore
in agguato tra le cerimonie
delle ombre. Nelle vene

ne conserveremo le impronte,
in fondo cosa dimostrano l’ostinazione
dei ciottoli, il logorio

delle città rastremate
in un ciglio di terra a dirupo, secoli di strade
a dire ciascuna sera profuga,

fatale. Se sarà 
dare voce l’acconsentire di ogni fibra
alla sua eco mortale.

……………………….

 


Tenere testa al senso, al nostro
stare così remoto e prossimo, lo avrebbe amato
e tanto meno. Venuti ad abitare

attimi, l’alfabeto terreno del respiro, il desiderio
che raduna i vivi. Una controfigura
tra sintassi di morti e stormi

a mani concave. Muta
tra i corpi la stessa profondità, sradicati suoli,
presente dopo presente

alla caduta dei segni sulla pietra. Come erbe
di tempo inquiete di fango
e chiarità, nell’azzardo scosceso

a rugiada e vigilie. Dove
si incresperà il nome che ci bussa alle porte
a cuore vivo, lungo prossimità, 

metamorfosi in un battito
uguale. Ogni inizio e fine nel coro innaturale
dentro la parola che manca,

il grido che i secoli hanno privato
di luce. La voce di tutte le generazioni
non basta a se stessa,

polvere al guado in un setaccio
d’ora. Se cerca fiato e germoglio, lesione
di figure dentro

il verso che ignora,
dal suo riflesso al tremolio che incrina.
Questo istante respira.

……………………….

 

Saranno maree le anime di gennaio
scese in corpo a caso. Secoli di guerre e di nevi
non battono all’unisono,

come le ghiaie di corrente,
le congetture unanimi. Ne abbiamo fatto
un tempo indifeso, così proteso

a eccedere, così incerto a ogni cosa.
Nelle tracce ancora prive di voce nei volti
sottostanti, ogni risonanza

d’essere, ciascuna morte
che custodiamo: una parola divisa nell’oscuro
del giorno si fa tempo

e conoscenza fino all’osso. Allontana eternità
nel vento divenuto vertigine lo stupore
disarginato tra le pietre,

un capoverso fossile di luce
al volo delle labbra sarà brezza, nel fondale
del tuo dormiveglia. In grembo

tiene finestre col loro carico di cielo nella loro
versione inesatta, non la terra
su cui poggiare

il capo né alibi è istante
che al nostro cospetto avviene. Abbeverare
così le moltitudini in pegno,

quello di vivere poi aveva
il suo peso, da quando la condotta
delle erbe insegna.

……………………….

 

Vedi alla voce: materia rarefatta
e sangue, scorrendo senza meta e figure
come a toccare il senso,

il segno non incontaminato
che corrode le pietre. Tra fondamenta e carestie,
in uno scarto che ingorga

radici alla sua fame, le stagioni
imbucate tra le ossa, sconosciute ai greti.
È perseveranza d’essere

nella sua devastazione, una pronuncia muta
a fare di ogni presenza ascolto,
ciascun passaggio

inaccesso, ogni ombra e notte,
gocce d’acqua, respiri. Le vibrazioni  dei rami
intorno alla luce

nel rovescio del cielo,
dove procediamo così a trattenerci, tracce
a malapena. Ovunque e mai

intriderà la pelle per una manciata di ossa
e di anime a sghembo.
Forniremo indizi

anche se inutili: al loro
punto di rottura, la sottrazione dei venti,
il respiro interrotto,

di profilo. Nomi che salgono a fatica
nell’ordine degli steli
a pozze e buio.

……………………….

 

Da qualche parte l’udire
tocca il suono. Lo tratteniamo ai polsi di scritture
corrotte, afasie addomesticate,

se sulla pelle delle cose
ne racconta ombre e stupori, moltitudini ovunque
tra le versioni contemporanee,

invisibili stanze moltiplicano i nomi. In un pensiero
irragionevole, il suo calore nel sangue
che allatta gli orizzonti

e questo improvviso
biancore di neve, custodito dalle ceneri
nelle zolle abitate dall’assenza.

Non dire, sulla soglia a pena, come superficie
di vento, vivi dopo vivi. A decifrare
chiaroscuri esposti

come fosse laggiù resina
di luce, il suo tempo superfluo. E di questo
movimento profusione,

lungo le estremità che slabbrano
asfalti, lingue d’acqua e massacri. Tra i fiori
dell’uranio l’umano

insonne smisura. In questa chiarezza
lievita indugi,  anziché
sottrarsi ogni identità respira.

Senza farne voce, irrisolta
nel calco che affila, avendone cura,
la misura e l’arbitrio.

……………………….

 

Ogni nostro corpo finito e sfinito
d’aria e di voce, di demoni, stragi e ancora
prima di morte, nel mutare

che cresce come fosse un dettaglio
inesauribile, stupito, il suo accadere specifico.
Un arsenale ai sopravvissuti,

viscere e nudità in questa sintassi umana,
nella pronuncia a corde tese,
spalancata in ogni

moltitudine a capo. A tenerci
a mente, a prenderci in parola. La sola a dilatare
costellazioni a braccia aperte

in un grumo di pena
accolta tra le camicie mentre sembra che muti
la leggerezza appesa alle pareti.

Saranno voci in punto stette alle bocche mai
finite, l’apnea del cosmo attraversa
volti e respiro, come fossero

richiami sterrati per aratri
e rimozioni. Ovvero qualche notte di strade
rampicanti, saghe di cieli

nelle stanze da poco a frantumi. È cosa
breve l’andare. E smarrimenti
di rotte agli orli di città

in risacca, un esercizio
sulle labbra all’unisono, tra le albe dove
ogni mattino è porto.

……………………….

 

A ripetere uno stesso suono
è voce che chiama, insensata, a tradurre
finestre e mondi, parafrasi,

un crepitio immenso questo
archivio di stelle. Poiché una pagina in anticipo
sulle mani, dove tende,

si tende. E attecchirne generazioni, quasi rugiada
tra le conversazioni a corda tesa
in ogni storia minore,

lungo il senso sommerso. Il ritorno
scagliato nei boschi, le immagini precipitate
in una lingua tentata,

senza saperlo balbetta.
Al riparo del fiato dal fondo dei decenni saranno
corpo e mutazione, le ossa

prendono la forma del sonno, la sua lesione,
un’apertura che sorprende a volte
la notte. C’è una luce

al guado in cui sprofondano
passi e rifugi nell’ordine: fianchi guerrieri, abiti
e respiri in affitto, il canto delle acque,

gli alfabeti umani. Se insiste
un’armonia d’urto e innesto, quando non ha
più tempi da condurre, altro

da arare, come riconoscerci in cocci
d’alba, vento d’argilla e pietra,
sillabe in gola.
  
……………………….

 

Esige altro la voce che involucri
di risonanza: chiede doglia e bersaglio, ferita,
morte insaziata. Mai l’ultima

parola, polpa ostinata,
latitudini di acque, ardesia in fiore, ombre
di metamorfosi tra i passanti.

Accanto espone il suo tempo
impoverito, un vibrato estremo si fa grido, sussurro,
fertile copia, un’esposizione

che squarcia i secoli a macchia. Se ustiona i sensi
fra amnesie nel disordine muto, notti
tra le labbra concave

il volto immenso d’essere
e insieme il luogo quotidiano da cui giungi.
La fronte violata dove

si sporge il mondo. Se resiste in un nodo a filo
teso, quasi emerso da una metafora
di terra fra secoli aspri,

remando pagine contemporanee,
così l’accadere intrinseco, la congettura
che non salva l’inverno.

Prendi ad esempio
il livello di buio, il respiro della neve
al guado, l’incandescenza

e il vano che arano
incanti e bufere, il segno deposto,
il tronco, la polpa, il pane.

……………………….

 

Come è potuto accadere. Che ci siano cose
a cui non abbiamo dato voce:
e popoli, uomini, mattini e frulli. E silenzi .

La chiarità senza preavviso
se accosti secoli al disamore, suoni di radio, alture
stupefatte tra le connessioni

che trattieni sulla tovaglia stesa. Attraversa i volti
dispersi come fiato sui vetri, a spatola
di stagioni sembra cosa

da poco. Scava fami e polpa
schiusi come una fioritura improvvisa, una traccia comune, il dettaglio che smuove

la materia e sposta il campo
visivo dal suo cumulo d’alba, breccia per ogni
soglia e ostacolo.  Si vedono ombre

che sgorgano rugiada ed un improvviso calore
sulla scena che raccoglie realtà,
simulacri, costellazioni

di città, fuochi fatui. La luce
non ha eco, anche se la parola potrebbe
e ciascun corpo riflesso.

Ma le acquisizioni dell’acqua
rimbalzano nello stesso suono mai concluso,
la pagina bianca su cui canta

fin dove arriva la voce.
Sono coaguli in controvoce a filo di mondo
per meraviglia nuda.

……………………….

 

A quale radice o pane, a quale musa
inesperta. La partitura sospesa nella pienezza
limpida che ignora, così

simulare l’estensione, il fiato breve, la parola
che diventa corpo per averne corpo,
umana e al tempo

disumana metafora di ogni
generazione all’unisono. La prima notte del volto,
una profondità screziata nel divario

dei vivi, identità e misura
che prosciuga fino al foglio, attuale. Se potesse
trattenerla sorgiva di segni accanto

a sé, mutare necessità al chiarore
che penetra la pelle. Lungo il tatto esile e breve
a spolvero in un malinteso

inciso tra i profili della nebbia.
Come raschiare lingue sui confini del corpo,
il cosmo che si inalba nel suo sguardo

immutato di febbri, controsensi.
Graffiti dispersi come pioggia lungo i vetri,
verità disuguali dove non sono.

A volte gli orizzonti hanno la densità dei nomi
mai raggiunti, a volte tremano:
al contatto di tutto il prima

e l’oltre, è un fatto normale.
Se la voce riesce a farsi tatto, a posarsi
sui corpi, a toccare le cose.

……………………….

 

Si esercita a nascere la voce forgiata,
l’atroce meraviglia. Nel suo magma d’alba, fino
a che punto si spinge, dove

si mescola alle folle e ai respiri,
dai destini delle strade ai visi in cui la realtà insegue
il suo sguardo e il fiato in un ammasso

di pietà. Se a monologhi di nubi e asfalto, accesi
legami nell’intonazione mortale,
scarti il suo nodo opposta

al calore dove resistono anfratti,
cardature a macchia  visibile. La sua necessità
altro non è, vicino il nome

aggiunto alla sua moltitudine,
nell’aratura delle acque, al setaccio di tangenziali
e insonnie, l’apparenza inattesa

sul lato opposto della scena, pietra e vagito
a chi somiglia, opposizione di sguardi
e muse. Le cose accanto,

il sangue in attesa. Dove
balbetta il vento tra i muri, di questa poca
ombra che levighiamo,

se le labbra cadono o trattengono
l’ultimo ospite, amato. Le dissonanze a riva,
similitudini di erbe feriali,

ogni atomo, ogni esercizio
di vita: ciò che siamo e non siamo, specie
comune, dismisura.

……………………….

 

Questa fame: la voce umana,
una recita che dimentica la parte e l’insensato
dentro di noi che inciampa

nella sua pagina incolta
senza appello, fiato animale agli strappi delle vie
in un’esposizione d’essere

in curvatura morte e parola, somiglianze nel viso
potato tra i legni delle ombre.
Ciò che sulla pelle

in superficie strappa i venti,
i gusci testardi delle cose. Muove segnali al suo
punto di tensione  dove la mente

è grumo, diserba asfalti e maree senza punti
d’appoggio. Soffio e cratere
dove sarà ieri incontro,

esodo ignoto d’eco
nel silenzio che crea per ogni canto improprio.
L’eco di tangenziali affacciate

sulle fronti dei boschi, adombra
cosa in un niente di figura. Più della luce, verso
i corpi e le ombre, si tiene

alla caduta e quanto più  terrena può, è qui
il suo dire: un’approssimazione
che si fa polvere

di rugiada e arbitrio
tra i nomi di cui cerca, avvicinandosi,
la ferita, il debito.

……………………….

 

A una voce si sfama, gheriglio
e volo, radura. Mai finita: negli strappi, nel tatto
luminoso, sradicato, lingua

di macerie e talee non addomesticata né indolore.
Chiede nomi, silenzi, rischi collaterali.
Tiene il cielo teso

senza orizzonte, nei legami
che dispiega, un’eresia sui paesaggi dischiusi,
né ci appartiene la parola

che aderisce e se domanda è 
senza rimedio, screpolatura di destini quasi fossero
indirizzi sconosciuti al loro inquieto

respiro. Affama profezie, 
ombra del dicibile a filo d’acqua, alla rinfusa,
la riva divenuta scrittura.

Si inabissa, riemerge quando abbandona il certo
vicino e il pretesto ad evaporare senza
ombra né luce. E attecchire

in gola una radura di notte
leggera. Superficie su cui disperdere vertigini,
farne sostanza intorno,

febbre e pane lasciati
sul gradino. Raduna vasta la piega del labbro
vano sul fondale, la pietà 

che invoca e butta cose
e innamora finità al suo estremo confine,
il segno in anticipo, vano.