Raffaele Marone

Della fine e dell’inizio

Appare in tutta la sua tensione, nella ricerca di una lingua autentica e il più possibile vicina alle origini, la raccolta aprile di Raffaele Marone che, di stesura in stesura, approda alla versione presentata nel dialetto della piana vesuviana.

Se la prima stesura, in lingua italiana, puntava, a quanto ci dice in nota l’autore, sull’emozione e sulla seduzione attraverso il lirismo e la riproduzione del noto e la seconda, sempre in lingua italiana, sull’apertura e sulla mobilità, attraverso una forma impura e incompiuta, la terza, divenuta “traduzione (traslazione?)” in dialetto, trova espressione nella lingua lavica dell’infanzia.

Quasi, potremmo, dire un passaggio dall’eruzione esplosiva vulcanica, insidiosa e attrattiva, all’eruzione effusiva, con le sue colate mobili e impure, e infine alla sedimentazione magmatica non ancora sopita, dura e rovente. Perciò “scrivere oggi il dialetto”, dichiara in nota l’autore, “spezza le unghie, fa sanguinare le dita”.

C’è come un ritorno all’inizio, anche se perso, anche se introvato, nel ribadire in continuazione la fine e l’origine nel loro contraddittorio mostrarsi.

Il completamento del titolo tra parentesi (‘a morte mmò mò e po’ torna a nascere), una morte in diretta e poi una rinascita, ci indica in sintesi la poetica della raccolta: un continuo morire e rinascere, una metamorfosi ininterrotta del testo come del pensiero che lo anima.

E cosa muore? Cosa rinasce?

La scrittura che, nel descrivere morte e rinascita, si fa anch’essa morte e rinascita nelle sue varie stesure, trovando ogni volta motivi di sofferenza e stupore. Il senso che da logiche fisse e chiuse passa a sviluppi mobili e moltiplicanti, nei “pensieri che diventano quattro / quattrocento un pensiero diventa / due una forma e un’altra e poi un’altra”. Il corpo che dalla sensazione di “ancora paura e paura / e i salti e il pugno chiuso contro / del morire ora solo” si apre alla percezione della linfa vitale. Il passato che, con il suo finire statico, spalanca il perennemente nascere del presente: “il passato è morto solo per questo / la morte ferma / di sé / risorgerà dalle ceneri”.

Tra figure emblematiche, quali “la signora paura” e la “zia conoscenza”, tra il senso di smarrimento quando / tutto torna al vuoto di nulla” e la fiducia in una possibile rinascita, infine in una relativa consonanza, poiché se ne ravvisa non tanto la crudeltà quanto la speranza, con l’aprile eliotiano che genera lillà da terra morta, nel suo aprile Raffaele Marone ci porta, attraverso la lingua lavica, magmatica e fertile, che gli appartiene, a percepire il vitale del morire, propriamente a “sentire le singole gocce d’oceani come sanno / e sa il fossile che porta la vita segreta della polvere in sé”.

 

I

perduto era inizio il tepore

puro infinito

e vissuto come unico

perenne assoluto.

una

conoscenza di una forma solo

e sola
 

I

perz’ s’era ‘o calore ‘e l’accummiencio

puro e senza fine

e campato comm’a un’ sulo

sempe llà assuluto.

una

ne sape, na forma sulamente

e sola
 

IV

del padre nelle sue biforcazioni

seguire la giustezza della strada dettata, labirinto

dei muri dove la testa

moltiplicata dai giorni fino a fare

perde sette frammenti duri infissi. poi

batte forte e il cuore per questo

nella mente che s’incrina per questo
 

IV

d’o pate dint’e vich’

appriess’a via giust c’a dittat’, ‘o labirint’

d’e mur’ addò ‘a capa se fa

mill’ cape, juorn’ pe’ juorn’, fin’a cché

aropp’ perde pa’ via sett’ scarde toste ‘nfizzate. po’

batt’ forte e ‘o core pe’ chest’

dint’a capa ca se senga pe’ chest’
 

e rinasce

un grand’uomo, perché la polvere

sa “chiedi alla polvere” disse

senti le gocce di linfa nella foglia come sanno

i suoi grani sanno sentire come sanno

sentire le rocce di vetta inviolata e i grani

di un sauro morto sentire le singole gocce d’oceani come sanno

e sa il fossile che porta la vita segreta della polvere in sé
 

e torna a nascere

“addimann’ a povere” ricette

nu grand’omm, pecché ‘a povere o’ sape

ca ‘e gran’ suje sapeno sentì comm’ sapeno

sentì ‘e gocce d’a linfa dint’a foglia comm’ sapeno

sentì una a una ‘e gocce ‘e l’oceano comm’ sapeno

sentì ‘e prete ‘mpizz’a muntagna sulitaria e ‘e gran’ ‘e nu sauro

fossile ca se porta aind’ ‘a vita segreta d’a povere


 

Nota dell’Autore

La raccolta è la terza scrittura di un testo, ultimo (per ora) passaggio di una metamorfosi in atto.

La prima scrittura lasciava emergere delle forme di lirismo che offuscavano la natura dell’espressione esatta. Aleggiava ancora l’atto di sedurre attraverso l’emozione, cercata ancora come riproduzione del noto. L’atto di conoscere deve abbandonare tutte le scorciatoie della seduzione (o bisognerebbe almeno provarci!).

La seconda scrittura, per spezzare le funi della seduzione, non è altro che il frutto di un riposizionamento dei versi all’interno dello spazio di ogni singola poesia. Così il senso si è liberato della logica del passato per fare la logica del presente, che è in atto, è mobile, è forma nuova. Impura e leggermente insensata, laddove si apre. Forma comunque incompiuta nel dire quel che è da dire ora.

La terza scrittura, qui presentata, è traduzione (traslazione?) in dialetto.

Tornare al dialetto è uno di quegli strani viaggi di ritorno al futuro, a ritroso verso il domani.

Tornare all’infanzia, a quella lingua dei suoni negati (dovevamo parlare italiano per diventare moderni?).

Quel desiderio di emettere suoni così è rimasto. E poi arriva la voglia, anzi la necessità spinta dall’urgenza, di scriverla quella lingua, per dire il tempo in atto, il presente (che è futuro allo stato perennemente nascente) con possibile esattezza, in forma che si senta compiuta proprio nel presentarsi con l’ambiguità del farsi o disfarsi.

La scrittura permette di far riemergere quei suoni antichi rimbombanti che vivono in un mondo cavernoso di acque esistenziali, carsico. Quei suoni, uscendo all’aria aperta si mescolano; oggi sono impastati con i suoni della strada, anche se questi, il tempo li ha in molta parte impoveriti e arricchiti, comunque cambiati (è la vita di una lingua viva).

La traduzione (traslazione?) in dialetto napoletano contemporaneo della piana vesuviana è materia grezza, ruvida; sarebbe bello se ancora risuonasse di echi di osco, perché li cerca.

Ma scrivere oggi il dialetto spezza le unghie, fa sanguinare le dita, è faticoso e a volte fa anche leggermente male: scrivere ogni parola è come staccare, a mani nude, un pezzo di roccia da una terra dura. Chissà perché. Forse la vita naturale di quelle parole in dialetto è nel mondo del suono e dei rumori.

O perché quella roccia è dura e scotta: forse è materia magmatica mai raffreddatasi, o è calda del calore di una stella che, lo sappiamo, non c’è più eppure sembra bruciare ora.


Raffaele Marone (Napoli 1960) è architetto e ricercatore universitario.

Sue poesie sono state pubblicate su “Le Voci della Luna” e, in rete, su “Blanc de ta nuque” e “Carte nel vento”.

Ha pubblicato libri, progetti e saggi di architettura.

Scrive il blog www.ilfattoquotidiano.it/blog/rmarone/