Saggio critico di Luigi Meneghelli, curatore della mostra

Oltre l’argento
I Tommasoli, fotografi dal 1906


“Oltre l’argento”. Per dire oltre il procedimento fotografico più conosciuto.
 E, dunque, oltre ogni pretesa di esattezza, oggettività, verità. Ma anche oltre ogni impiego della fotografia come strumento per vedere e vedersi, per avere conferma del mondo e del sé. La mostra presenta tre generazioni di fotografi (un intero secolo di immagini), facendo prospettiva più sulla ricerca artistica e sulle preoccupazioni tecnico-stilistiche degli autori che sulla loro operatività professionale, anche se quest’ultima si avvantaggia non poco delle stesse indagini sperimentali. Si intende rivisitare quella ritualità magica fatta di trucchi, di pose, di luci, di chimica, soprattutto di sguardi che entrano nell’operazione fotografica quasi fisicamente, caricando le immagini di una sottile ambiguità. I motivi che si incontrano sono i temi abituali del repertorio fotografico: ritratti, nudi, paesaggi, still life.  Solo che nel conosciuto sembra infiltrarsi invariabilmente un dato favolistico, nell'ordinario un che di meravigliante. Non si tratta di “strappare la maschera” al volto o di deformare figure e cose, ma di lasciar cadere dei sospetti, delle tracce oscure (sempre ben camuffate da testimonianze oggettive). Ed è come se i vari artisti avessero inseguito la logica dell’”altrove”. Queste fotografie spingono a guardare “oltre” la foto stessa, a cercare anche ciò che non c’è, a intuire l’alternativa possibile, l’altra faccia del mondo.

È così per il “ritratto” femminile di chiara ascendenza futurista di Silvio Tommasoli (del 1910 c.), dove l’identità slitta in un gioco di sovrimpressioni, dando l’idea che l’immagine non finisca mai o che costruisca uno spazio rotante o che addirittura alluda ad altro (ad un calice, ad una coppa, ad un’anfora). È così con il Nudo con conchiglia dei fratelli Filippo e Fausto Tommasoli (degli anni ‘50) in cui una figura di donna è avvolta da una sorta di panneggio che la risucchia dentro di sé, quasi a creare una connivenza (una “doublure”) con la conchiglia e a suscitare dentro l’immagine un effetto di “mise en abîme”. Ma è così anche con le esperienze estreme: con le Scritture fotogrammiche di Sirio Tommasoli (dal 1979 al 1987) che entrano nelle pieghe del linguaggio, provocando attraverso un processo di combinazioni immaginative, una visione elastica e spiazzante o con le Ombre di Alessandra Salardi (del 1998): foto-performance che danno testimonianza diretta di un corpo che lascia la propria traccia e il proprio calco sulla superficie fotosensibile, quasi a mostrare il farsi stesso dell’immagine.

Si può affermare con certezza che l’interpretazione dei materiali che costituiscono l’archivio Tommasoli produce una continua, impalpabile mutazione al loro interno: osservandoli bene si coglie tutta una serie di frammenti, tracce, memorie improvvise che passano di padre in figlio senza soluzione di continuità.
Nell’opera di tutti gli autori sembra aprirsi una specie di precipizio e crescere una tensione imprecisabile, come se la finzione fosse sempre sul punto di rompersi e la gestualità un’acrobazia oscura, misteriosa, simile a quella di uno che fronteggi e schivi i colpi di un nemico invisibile e sconosciuto. Al messaggio, al significato di una posa, cioè l’occhio fotografico non giunge enfatizzando l’istrionismo, ma percorrendo una strada abusiva, che confonde il reale con l’immaginario, o meglio mettendo in luce un’ipocrisia che non persegue altro fine che il piacere di rivelarsi.



(dal saggio critico di Luigi Meneghelli, curatore della mostra)