La sincope resta aperta, di Jean-Luc Nancy

Un omaggio a Philippe Lacoue-Labarthe, pubblicato nel giorno del suo funerale da “Libération”, venerdì 2 febbraio 2007.

Jean-Luc Nancy             Philippe Lacoue-Labarthe
       Jean-Luc Nancy              Philippe Lacoue-Labarthe

 A te, Philippe, per salutarti. Per dirti un addio che non ti promette alcun Dio, poiché sei partito verso il nulla o verso te stesso, a meno che tu non ti sia finalmente voltato, girato verso di noi, forzatamente distolto dalle lontananze verso le quali non vai perché non esistono. A te che sei entrato nell’unica presenza per te dotata di stabilità, nella sosta o sulla stele dove decifrerai l’immobilità pericolosa di ciò che si pretende identificato: la figura cerchiata, eretta. Entrare nell’inammissibile, dicevi, di questa stanza: essendo raggelato, nient’altro che sottratto all’infinito d’essere. Entrato in questo rivoltante non luogo d’essere.


A te che sei passato sull’altra scena per giocarvi, rovesciato, lo stesso ruolo: l’impossibile conformità all’eroe di se stesso, a questo eroe che ciascuno di noi dovrebbe accogliere in sé, come sé, al posto di sé, accogliendo così l’impossibile.

A te che hai compiuto l’unica rivoluzione ancora possibile al tuo desiderio di anarchia sovrana: quella dei tuoi occhi rivolti all’indietro, che non vedono più e lasciano scorrere le lacrime. A te che hai mantenuto l’impegno, l’unico, al quale ti destinava una forza oscura: quello di ritirare la tua immagine nella tua ombra.

A te che volevi vedere l’Aperto, secondo le parole di Hoelderlin, e per questo avevi bisogno di reinventare. A te che non vedevi altro che chiusure e barriere, limiti intollerabili, mondo finito.

A te che volevi parlare con massime e parole, non con termini né propositi. Parole lanciate, proferite, destinate. Queste parole il cui eroismo è la pronuncia. Tu chiamavi questo ‘coraggio della poesia’. Era ancora una parola del tuo eroe, di questo eroe quasi senza figura né statura e ritirato nella torre della propria follia, colui che si firmava alla fine con il nome danzante di Scardanelli(1). Colui che sapeva l’evidenza del cielo sopra di noi.

La follia, Philippe, tu la guardavi negli occhi. Nei suoi occhi smarriti, guardavi, scrutavi l’approssimarsi dell’altra scena. Tu hai sempre detto che indovinavi nella loro follia (Roussseau, Hoelderlin, Nerval, Nietzsche, Artaud) la sottile simulazione di coloro che tra noi giocano l’altra scena. Era il tuo paradosso di attore: più egli tiene distante il vero, più si avvicina alla verità, l’intrattabile, l’innominabile, la deformata e deformante.

Così creavi il personaggio della tua stessa favola eroica, l’attore che incarnava ciò che non si può rappresentare né incorporare: la parola, in effetti, non quella formata e significante, ma quella formante, l’incantatoria, la balbuziente persino. La poetica, sì, ma senza poesia, senza poiesis: non produttrice di opere poetiche, ma mimetica soltanto dell’inimitabile balbettio infantile.

E’ il bambino che tu desideravi, il bambino che ti sembrava non essere mai stato. Giocavi in effetti, così bene e così assiduamente da aver avuto già da molto tempo l’età dell’autorità e dell’esperienza acquisita. Da sempre avevi già l’età in cui niente può sorprendere.

Ciò mi sorprendeva sempre ogni volta. Non smettevi di spiegare le tue certezze più a monte. Forse pensavi veramente di sapere ciò che si deve sapere. Forse pensavi che giocando questo ruolo dovevi sapere, perché ciò che si deve sapere non è altro che il gioco della verità: poiché essa non esiste, non è nulla di esistente, essa si prende gioco ed è veramente in gioco sottraendosi al cuore e al principio di ogni rappresentazione (di ogni pensiero, di ogni arte).

Non si passa dietro la rappresentazione, tu insistevi ferocemente su questo punto, con violenza persino, indignato che si possa pretendere una presenza altra della morte fredda, innominabile e inaccettabile. E’ la rappresentazione, è il suo gioco che c’insegna che la presenza si allontana sempre più, infinitamente lontano.

Ciò che la tua rivolta permanente accusava, questo grido infastidito, era tutto ciò che crede o pretende di credere nella presenza. La figura, dicevi, quella del potere o quella dell’arte, quella dell’uomo o quella del Dio irrappresentabile. L’identità appurata, accerchiata, identificata. Ciò che tu pensavi, non senza ragione, minacciare non soltanto Heidegger ma in verità ogni pensiero.

Non figurare nulla, non figurarsi nulla. Ascoltavi la musica, quella che apre lontananze e le mantiene lontano, le avvicina a noi soltanto per inasprire la loro distanza irreparabile. E’ così che vedevi l’aperto. L’interruzione, il sospeso, il silenzio, il bianco, il negativo, non tanto in un buco nero ma nel ritmo.

Il ritmo, e di conseguenza la frase. Frase è il tuo titolo, è la tua parola, è il tuo soffio. La frase: non il senso, non lo scopo né l’orientamento, ma la sensibilità dell’erranza. La cesura, la pausa che apre la cadenza, la mano del percussionista alzata lontano dalla cassa chiara, l’archetto improvvisamente trattenuto sulla corda, la possibilità della musica. Vale a dire una piccola rappresentazione che ci tocca.

Un giorno, mi è capitato di usare la parola sincope e anche tu l’amavi. E’ da lì, sicuramente, che noi potremmo toccare il meglio l’uno con l’altro e da lì ci fu data la possibilità di una particolare condivisione di vite e di pensieri. Tra noi, sì, un sospeso, un ricordo di presenza, di numerosi segni e di forti scambi da una riva all’altra, e la traversata sempre necessariamente differita. Ma la differanza, memoria tra noi di questa parola di Jacques (2), la differanza(3) dall’uno all’altro differisce poco, in fin dei conti, dalla differanza in sé.

Oggi la differanza infinita è finita; la cesura si perpetua, la sincope resta aperta. Non è senza bellezza, malgrado tutto, tu lo sai: è anche il tuo sapere più intimo.

Traduzione di Stefania Roncari


(1) Nome con cui Hoelderlin firmava i suoi ultimi poemi.
(2) Il filosofo Jacques Derrida.
(3) Parola forgiata da Derrida: il processo con il quale i concetti differiscono.