Love: frammenti visivi di un discorso amoroso

Love frammenti visivi diun discorso amoroso

A cura di
Paolo Donini e Daniela Del Moro

catalogo con testi di Paolo Donini, Daniela Del Moro, Claudio Composti, Sirio Tommasoli

e con una scrittura di Flavio Ermini

Città di Pavullo nel Frignano Assessorato alle Attività Culturali
Gallerie Civiche di Palazzo Ducale
6 luglio – 14 settembre 2008

La mostra intende realizzare/provocare un’indagine sul tema dell’amore nelle sue varianti iconografiche più rappresentative nell’arte del presente. Il concept fa riferimento a una delle opere filosofiche più belle scritte sul tema dell’amore: Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes (editions du Seuil, Paris, 1977), da cui viene mutuato il sottotitolo: frammenti visivi di un discorso amoroso. Proponiamo ai nostri lettori - oltre alla scrittura che sul catalogo Flavio Ermini dedica a questa tematica - una esemplare galleria di immagini della mostra.

FLAVIO ERMINI

DUE IN UNO

L'interminabile esperienza originaria dell'amore

1.

In principio l'essere umano era l'uno e l'altro. «Noi fummo interi» dice Platone «e il desiderio dell'antica unità così come la sua ricerca ha per nome Eros».

Proprio come ci viene presentato nel Convito, quale daimon nato dall'unione tra Poros e Penía, Eros è mancanza, bisogno, insufficienza e nel medesimo tempo via, passo per accedere a ciò che non si possiede. È forza perpetuamente insoddisfatta e inquieta che occupa «il posto intermedio tra l'uno e l'altro estremo».

Frontiera fisica che tiene fuori di sé l'altro, il corpo si configura come limite di pensabilità dei sensi. È nella sintonia dell'incontro erotico che s'instaura un rapporto in cui il corpo si trasforma in transito dall'uno all'altro.

Promesso a una forma, Eros è custodito «dove i corpi si mischiano», nella zona di confine tra il pensiero razionale che l'essere umano ha nel tempo articolato e la follia che in esso non ha mai cessato di tracciarsi.

In questo esodo è pensabile anche il movimento che porta verso l'altra parte di noi stessi, alla terra incognita da cui un giorno ci siamo allontanati. 
 

2.

Mi scrivi: «La terra che attraversiamo è in parte raccolta negli specchi della nostra casa. Noi siamo questi specchi, che vanno consumandosi nel viaggio intrapreso. Siamo la loro lucentezza e il loro lento offuscamento».

Mi dici: «Siamo gli specchi rivolti alla luce del crepuscolo. Siamo gli artefici di cose che solo nella prossimità della notte si possono vedere.»

Soggiungi: «Occorre volere con ostinazione, altrimenti non è possibile percorrere tutta quella distanza che ci separa da noi stessi». 
 

3.

Le frasi di chi parla d'amore sono spezzate fino al balbettio e rivelano un'agitazione di fondo e una "turbolenza" che portano lontano dalla chiarezza rassicurante del discorso. Un'atmosfera di sospensione le avvolge.

Questo dipenderà dallo stato d'insicurezza in cui naturalmente si colloca la passione amorosa? O dipenderà forse dal fatto che l'amore si costituisce, in ogni suo istante, a partire da un "bisogno" dell'altro oltre che da una condizione soggettiva di "mancanza"?

Orfeo è il simbolo stesso di questa sospensione: vera e propria lacerazione - prima nell'animo e poi nella carne - fra un'insperabile restituzione all'unità e un'incombente perdita. 
 

4.

L'interminabilità del gesto che stiamo compiendo è proporzionale alla razionalità che lo controlla e mi ricorda i versi di Antonia Pozzi: «Belve chiare / guardarono dal folto / a lungo / il tramonto nell'acqua».

Mi dici: «Nella luce del crepuscolo ci sono i relitti prodotti dal giorno e c'è il vortice che ci strappa da terra e non ci restituisce più alla mano del tempo».

Soggiungi: «Quel che è profondo, nella vita come nella scrittura, è chiuso nella lontananza: nell'albale altrove di noi stessi».  
 

5.

L'amore giunge dopo che l'unità è stata spezzata. Unisce ciò che è stato diviso. Cerca di ridare vigore alla perduta beatitudine: tutto ce ne parla, a partire dai corpi.

Ma l'amore va al di là del godimento dei corpi. Come indica Platone, occupa «il posto intermedio» tra l'uno e l'altro estremo. Si fa interprete tra la ragione che l'uomo ha costruito e la follia che ancora lo abita.

Anche la carezza ci parla di questa concezione dell'amore come tensione verso la ricomposizione di quell'uno che eravamo. Ce ne parla anche come esodo incessante e doloroso nella ricerca tormentosa della propria metà.

L'amore opera per ricostituire la forma originaria, facendo «di due uno». Quell'uno indistinto e primordiale dalla cui separazione si sono generati i due. Ecco perché nel Simposio si dice: «Forse è questo che volete: diventare la medesima cosa l'uno con l'altro, in modo che non vi dobbiate lasciare né giorno né notte». 
 

6.

M'incammino su questa terra di confine instabile e smottante. Così come lo è la luce del crepuscolo, in cui riconosco non un semplice declinare della luce, ma il sottrarsi dell'essere dal cerchio della vita, in un viaggio di ritorno a casa.

«Seguimi.»

Se la luce dell'albale altrove che gli specchi segnalano è un cerchio d'inconosciuta purezza, la luce del buio interiore verso cui ci incamminiamo ha una dolcezza dal sapore già noto.  
 

7.

«Seguimi.»

Una carezza traccia le vie che conducono all'originaria pulsione che si gemina in pulsione sessuale e pulsione di morte.

La seconda incide profondamente sulla prima, alterandone il sembiante e il linguaggio.

Grazie alla carezza, a venire in primo piano è l'incontro degli opposti: una duplicità senza opposizione, che pur legando non sopprime i differenti e li lascia essere in pace. Come se l'accadimento avesse in serbo un pensiero che, là dove tutto manca, è ancora un ricordo o già un'attesa. È proprio nell'immagine di questa piega - propriamente una carezza - che il tra dell'amore va pensato. 
 

8.

«Felice è l'umano perché si pone tra luce e tenebre» ricorda Valéry nel Mon Faust. E avvalora l'importanza dell'intrico tra luce e ombra per comprendere il senso di un edificio in cui molti specchi trovano costantemente crescita e sparizione.

L'edificio in cui stiamo per tornare ha uno spessore che si fa sentire con forza. Luce, spazio, scorrimento, contrasto e linearità orizzontale: queste le componenti del reale che accolgo, con l'illusione di toccare i limiti del buio e della notte.

«Non è che una pausa» mi dici. «Ma questa sospensione ci consente di approssimarci all'ombra su cui la verità sorge illuminandosi».

«L'ombra è la condizione necessaria all'acquisizione della verità» precisi. 
 

9.

Scrive Heidegger: «La mano porge e riceve, e non soltanto le cose, porge anche se stessa». Nella carezza, l'intenzione affidata alla mano offre il dono di sé e sfugge a ogni controllo. Ogni carezza, quella spaziatura tra il desiderio e il compimento, diventa un enigma sia per chi la dà sia per chi la riceve. Il senso che abita la mano è sempre compromesso dal senso che scaturisce dal corpo dell'altro. Quel corpo che non si ha mai la sensazione di possedere anche quando lo si avvinghia.

È del vuoto che ci si innamora e non del pieno. Per questo il respiro degli artisti ha sempre a che fare con l'inizialità del dire e sembra rubato al respiro degli amanti. Per questo l'amore mette in gioco l'esposizione all'altro, l'esposizione a qualcosa che intende sottrarsi alle prospettive del senso finale. Per questo, il dire dell'amore diventa discorso sull'amore e insieme una questione ineludibile per il pensiero.

Via di trasformazione e accesso a un nuovo percorso interiore, l'amore conduce a un sapere accessibile a chiunque non pretenda di dominare il pensiero, ma intenda lasciarlo avvenire e pensare. Indica precisamente l'impossibilità di un calcolo e di una padronanza. Accade quando i corpi si parlano e la parola, destinandosi a un altro, impara la disciplina dell'ascolto.

«Seguimi.»

Consentendo l'irriducibile compresenza del due-in-uno, l'amore rivela l'essere umano nel suo statuto di intrinseca e originaria duplicità, nella sua impossibilità di essere soltanto uno.

Il suo senso non è accessibile se non con un pensiero confusivo, capace di mettere assieme gli opposti, tanto da corrispondere al silenzio quando si destina al nome: momento di esperienza, etico, prima che conoscitivo.

L'inexplicable che Poros e Penía dispiegano è già la nostra instabile e provvisoria dimora. Dietro di sé non ha il Verbum divino, ma l'ingens sylva dello stato demonico arcaico. Lo ricorda Gabriella Drudi: «Noi non siamo soli al mondo - e gli animali che ci portiamo dentro possono sempre divorarci o leccarci la mano». 
 

10.

Mi domandi: «Cosa accadrebbe se l'aria ci venisse sottratta e lo spazio si facesse irrespirabile?». Ma, senza attendere risposta, pensando a Celan soggiungi: «Non è forse vero che il respiro diventerebbe rantolo e non basterebbe che per un grido?».

Nel grido che si leva si cristallizza il senso dell'esistenza nel suo punto tragico.

Un attimo: e la verità non si lascia più ingannare dalla ragione.

Una pausa: e il grido copre tutte le armonie e le spezza. 
 

11.

È la carezza che indica la differenza a partire dalla quale presenza e assenza, apparire e scomparire sono pensabili insieme.

Ma nella carezza, l'intenzione affidata alla mano sfugge al controllo. Ogni carezza diventa un enigma sia per chi la dà sia per chi la riceve. Il senso che abita la mano è sempre compromesso dal senso che scaturisce dall'altro. Nel registro confusivo non c'è un principio d'ordine.

Il dire dell'amore affronta frasi intricate, immagini sovrapposte; si muove in direzioni tra loro contrarie, rinuncia alla tranquillità.

La carezza, essendo assolutamente imprevedibile, obbliga a mutare con rapidità qualsiasi disegno strategico.

Ogni rapporto amoroso è soggetto a instaurare un nuovo senso, una diversa temporalità, connessa all'identità dell'altro, attraverso l'altro. Ogni carezza è un sussulto per il pensiero. 
 

12.

Mi scrivi: «La luce e la notte imminente ci abitano se apriamo gli occhi per vedere».

Mi dici: «Siamo gli specchi di una minuziosa osservazione».

L'iterazione del nostro sguardo sulle cose scioglie le cose stesse e poi le ricostruisce su un piano che non è più quello del vissuto amorfo, ma quello del vissuto personale. Il contrasto tra la luce e la notte imminente si sdoppia, per così dire, in quello tra pluralità e unità. È uno sguardo che compone per intensità di presa. E da questo scollamento ha inizio la scrittura e, con essa, una seconda nascita.

Nessuno potrà più impedirci di rispecchiare ciò che giaceva sparso e senza vita nelle zone residuali dell'esistenza.  
 

13.

Chi ama deve essere pronto a saper trasformare i suoi sistemi offensivi o difensivi. Il campo di battaglia è molto insidioso. L'avversario può nascondersi ovunque. Il corpo stesso è un territorio aperto a un'esplorazione mai finita. In questo genere di rapporto senza garanzie, la terminologia è strettamente militaresca. Gli innamorati sono contendenti che passano frequentemente, senza motivazioni ben precisabili, da uno stato di contrasto a un atteggiamento affettuoso. Nessun incontro si svolge con sequenze logiche di azioni che conducano a esiti intuibili.

Grande per esempio è lo sconvolgimento che subisce la presenza quando è sfiorata dalla carezza dell'altro. Quale sarà la reazione? La pace o un nuovo conflitto?

La costruzione amorosa più che innalzarsi si allarga. Le varie parti che la compongono non sono mai collegate ordinatamente tra loro. Per questo nessuna figura può essere ritenuta prima o ultima. 
 

14.

Un bagliore: il tempo di vedere i minimi reperti dell'essere avanzare e dissolversi. E di cogliere nella notte dell'anima il momento in cui il tu dell'interiorità si rende manifesto. La parola deve saper dire non appena scorge il da pensare.  
 

15.

Il da pensare è l'intervallo: quella distanza all'interno della quale si riconosce e si misura tutto ciò che c'è tra gli amanti.

Si profila una metodica del comportamento amoroso. Un'etica affettiva. Il discorso lacerato e privatissimo dell'innamorato chiede di essere tenuto nella giusta considerazione.

Immagini scheggiate ed enunciazioni di tensioni variabili hanno la stessa energia di frasi e composizioni segniche articolate secondo schemi dialettici. Promesse a una forma e ancora nel caos, sono più vicine allo spessore opaco e buio del corpo che alle vertigini dell'estetica.

L'esperienza amorosa è sospesa al corpo di qualcuno che, essendo vissuto come altro, scopre una relazione che stava dentro di noi, in attesa: verso di lui.

Cos'è l'attesa? Risponde Barthes: un dramma divisibile in congettura, ira, angoscia pura. Afferma il pensiero razionale: «Tutto si aggiusta - ma tutto ha una fine». Afferma invece il pensiero amoroso: «Niente si aggiusta - e tuttavia le cose vanno avanti lo stesso».

Chi parla d'amore porta le stimmate di una ferita immedicabile: non possiede ciò che brama. Desidera quel corpo. Vi aspira.

Chi parla d'amore è sempre in bilico tra l'indigenza della mancanza e la ricchezza dell'acquisizione. Risorsa e penuria accompagnano costantemente ogni sua frase. Ma è proprio l'accadimento non iscritto nelle prospettive del senso finale, definitivo, a fare beatitudine.

Sono molte le mosse del combattente solitario sullo scacchiere dei suoi turbamenti amorosi. L'arma principale rimane sempre un frammento visivo, al quale noi tutti possiamo aver volto lo sguardo. Questo combattente agisce di norma in una condizione di smarrimento ed è privato anche di ogni alleanza, come dei benefici dell'armistizio. Nel Liside ci viene ricordato: «Colui che desidera vuole ciò di cui è mancante». Ovvero, «colui che desidera» spera e si consuma in una solitudine spasmodica.

Ce lo svela il Simposio: «Chiunque desidera ciò che non ha a disposizione, desidera ciò che non gli è presente e non ha, e che egli stesso non è, e di che è privo». 
 

16.

Niente in questo edificio è immutabile, ci dicono gli specchi della nostra casa. Tutto è sottoposto alle leggi del divenire. E dunque all'obbligo di affrontare nuove avventure, nuovi progetti. Al fine di cogliere il fondamento dell'essere, che si esplicita come azione perenne dell'uomo verso una vita interiore che non sia pura ripetizione. L'antiluce è il vero cielo della parola: comporta il passaggio di confine tra i sensi e la materia della verità.

Il cammino è quello tracciato da Antonia Pozzi: «E s'erige la notte / ombra mia immensa: / ai ginocchi il gridìo dei campanili, / a ignoti mari / protese le mie braccia nere». 
 

17.

L'ombra è il fondo autentico di ciascuno di noi. E ci costituisce.

Ma solo con l'arte poetica l'"immensa ombra" che ci abita si fa presente alla coscienza, senza rimanerne per questo sopraffatta. E scopre il volto purissimo della morte.

«Conosci te stesso» è scritto. Ovvero, conosci la tua finitezza.

Il tramonto del sole appartiene allo stesso orizzonte metafisico del morire cui appartengono tutti i viventi. Segnala l'altrove del pensiero, il suo esodo permanente. Conduce al termine del soggetto, nell'ombra, verso territori che possono essere intuiti senza poter essere delimitati o percorsi.

Mi scrivi: «La notte comporta il passaggio di confine che ci separa da noi stessi».

Indicandomi il persistere dell'antiluce nella mappa albale del nuovo giorno e forse dei giorni a venire, mi fai osservare: «Occorre volere con ostinazione, altrimenti non è possibile percorrere tutta quella distanza».  
 

18.

... e per fortuna la notte è ancora là, anche se, come annota Saenz, «appare sorprendente che fino a ora la notte non sia stata eliminata dalla faccia della terra; / liquidata e abolita per sempre, in omaggio al progresso dell'umanità».

Contatti
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