Roberto Rossi Precerutti, Spose celesti

(…)

dentro lo specchio opaco di annullato

mattino – e, qui, quest’assedio, il lavoro

paziente di saccheggiato decoro,

di beltà demolitrici, ossidato

 

cerchio di vista e senno, senso oscuro

di balbettanti sillabe come alta

rabbia di rovine, e l’essere lontano,

ancora, dove nessun verde smalta

il composto giardino d’ansia, e il duro

spalto dell’ombra sopra un corpo vano.

“Dove nessun verde smalta il composto giardino d’ansia”, dove non c’è riparo, dove siamo lontano, in una rabbia di rovine, dove siamo un corpo vano nell’oscurità, dove il senso della nostra finitezza è più acuto, qui il terreno è fertile per la nascita della poesia più autentica. Cosa c’è nello scarto tra un saccheggiato decoro e una beltà demolitrice? Uno spostamento leggero di senso, la differenza tra un’azione indotta e una subita ma con lo stesso esito, come in una dissolvenza filmica. Il poeta raccoglie il risultato di questo “paziente lavoro” restituendocene il senso, tradotto nelle aporie della vita. Tutto avviene attraverso il linguaggio. Se il linguaggio divide l’uomo dal resto del mondo, privandolo dell’esperienza di una pienezza, questa poesia cerca di porre rimedio alla perdita originale. Non tanto per ricostruire l’unità perduta, quanto per farci imparare ad accettare la nostra finitezza, il nostro corpo vano.

Accettare la precarietà del mondo e riconoscervi la fragilità e la fugacità costitutive della nostra condizione e della nostra vita su questa terra. E’ proprio questa precarietà terrena che la voce della grande poesia cerca di testimoniare, senza offrire facili consolazioni, senza retorica. C’è tutto il dolore dell’esistere nella nostra notte, dove “tradisce/ solo un suo ritirarsi questa stanca/ parola, un perdono fragile oppone/ il tuo sorriso al buio che rapisce.”.

L’altezza del pensiero ci conduce verso il nostro cuore di tenebra per mezzo di una lingua esattissima. La poesia si radica dentro un sapere che trova fondamento in se stesso e si dissemina dappertutto, tra la terra e il cielo. E’ un sapere che si esprime attraverso la composizione poetica e che diventa ricerca di un assoluto. Attraverso un cielo, con la sua meccanica, le sue rovine. Per lo stupore di quello che avviene sopra di noi e davanti a noi. Nel bello e nel tremendo.

“Dire l’affollata breve festa// del cuore che incorona la foresta/ di rovine vorrai mentre lo stelo/ della tua rosa d’ombra cerca un cielo/ trafitto dalla luce che si desta?” Nella costruzione del testo l’esercizio è tale che la classica, rimata, musicale e compatta forma del sonetto è solo la base per dire quello che solo nella composizione poetica può accadere, quello che solo il poeta può vedere. Rossi Precerutti supera la poesia come atto di raccogliere il mondo, la porta a riscriverlo con una fedeltà che vuole raccogliere l’indicibile.

Roberto Rossi Precerutti, Spose celesti, viennepierre edizioni, Milano 2006