Adriano Marchetti: Incursioni intorno alla Notte

La notte non è l’inverso del giorno ma la sua necessità opaca, una destinazione nera, aureolata della sua presenza. L’alba, che nei suoi inviolati veli si sottrae alle tenebre e alla luce, porta in seno il crepuscolo e fa cenno, sfiorando le cose col suo bacio, a una fuggevole promessa di gestazione e insieme a un principio di sottrazione. Solo alla fine di questa aerea corsa, la fuggitiva «Aube» di Rimbaud ci apprende che l’amplesso con la ‘dea’ è un racconto generato da un sogno, precipitato, prima del risveglio, in fondo al bosco.

La notte precede ciò che è; il suo primo soffio mette al mondo l’essere balbuziente. I miti la dicono figlia di Caos e, conservando memoria del suo rapimento, madre del Cielo e della Terra, ma anche generatrice del sonno e della morte, dei sogni e delle angosce, della tenerezza e del crudele inganno. Le Furie e le Parche la seguono in corteo. Della notte dei tempi che ha fecondato, lei riveste il segreto, rivelando l’oscuro principio femminile che tutte le cosmogonie celebrarono: all’origine, alla fine, la gravida, la tenebrosa, primitiva e perpetua.

In un ‘crepuscolo’ di Alice Thompson Meynell (Song of the Night at Daybreak) la notte è una «malata di ricordi» in esilio, abbandonata da ogni stella. Altrove, in Cradle-song at Twiligt, era «Balia troppo giovane, l’esile Notte » e priva di desiderio materno. Per questa poetessa dell’età vittoriana, fortemente influenzata dalla lirica di Wordsworth, Shelley e Keats, nella notte si raccoglie l’indistinto linguistico: “mare del non detto, culla dell’ispirazione poetica, perfezione assoluta nella propria silenziosa embrionalità».

«Io sono l’amica delle verità./Io sono la Notte che scioglie la lingua dei morti/E la lingua dei mentitori», così nella Ville Parjure di Hélène Cixous parla la Notte, impalpabile e tuttavia incarnazione di un Teatro che vuole essere il fragile specchio critico del mondo contemporaneo: con lei tutta la polis sprofonda ma la sua luce nera non manca di mettere a nudo cospirazione e crimine.

Il suo regno, che inizia e regola la focalizzazione di ogni coma, di ogni agonia, è l’esordio che si occulta o la fine che tende all’enigma naturale dei numeri. Ma l’alfa e l’omega costituiscono i termini del ciclo del sapere totale, mentre la sostanza ctonia delle tenebre non conosce nulla, non si rivolge su se stessa in verbo riflesso. Vi provvedono soltanto i nostri racconti, i nostri culti che la inventano, la raffigurano, la fraseggiano, l’esorcizzano, l’implorano. Alla sensibilità visionaria e mistica nonché agli effetti della morfina, necessaria a calmare le sofferenze della tubercolosi, è legata l‘estrema invocazione a Nyx, di Catherine Pozzi. Nyx, ‘notte finale’, è attesa d’«angelica farfalla» del «multiforme sonno». Niente la placa, né oblio né sogno, e neppure il sonno che tuttavia le dà sollievo. A meno di essere la pace stessa, quella delle ceneri o dell’estasi.

Nelle figure nere dei vasi greci, come pure negli affreschi preistorici del Levante iberico o del Sahara, la macchia scura equivale alla massa. Nel cuore della caverna, il fuoco poetico apprende all’uomo la concentrazione, la vigilanza, l’agilità. «Ci si stupisce che sia stata scelta una cavità sotterranea», fa notare Jacques Lacan a proposito delle pitture rupestri scoperte nella grotta di Altamira. In Emergences-Résurgences di Henri Michaux, la buia parete cavernicola è l’analogo del magma da cui erompe un immaginario foriero di mostri e apparizioni: «Oscurità, centro da cui tutto può scaturire, in cui occorre cercare tutto». La notte preistorica inizia a pensare.

Fantasticheria platonica del settimo libro della Repubblica che afferra l’ombra come privazione della luce e la diminuzione dell’oggetto che la proietta. La sua natura incerta suscita sospetto, paura, schermo alla conoscenza diretta. Quando Plotino celebra nell’Enneadi lo splendore della luce, gli oppone la materia «tenebrosa» e invoca uno «sguardo interiore», il solo capace di apprendere la luce spirituale. Attraverso Agostino e Dionigi Areopagita, l’opposizione di luce e materia ha irradiato il Medioevo con lo stesso splendore dei fondi d’oro dei mosaici bizantini o dei primitivi italiani. Esaurita questa parabola, il senso sacro della luce sbiadisce e, senza per ora fare posto a un positivismo dello sguardo, diventa un senso umano. L’artista non assimila più la luce a Dio, anima del mondo, ma alla propria, proiettandovi il proprio essere individuale e facendone il linguaggio della propria doppia natura più essenziale.

Non c’è che da scendere, prendere con Montaigne le distanze dalle chiarità logiche e penetrare nel buio di se stessi. A poco a poco si compiono le notti consecutive della mistica, le tre notti di Giovanni della Croce: notte dei sensi, notte dell’intelligenza, notte dell’anima. Al termine della «notte del nulla» scaturisce una luce soprannaturale che, non più ricevuta dall’esterno, emana come da un focolare dentro di noi. La sua simbologia è abbozzata fin dalle origini dell’umanità: lo stregone della preistoria attirava il neofita fuori dalla luce solare, nelle tenebre crescenti delle viscere della roccia, in cui l’accoglievano gli arcani. Morto al mondo delle apparenze e a quello delle idee«chiare e distinte», l’uomo sembra superare se stesso, pervenendo al centro più segreto di sé e insieme al di là di sé, alla soglia del Nulla e al contempo dell’Essere.

Maurice de Guérin, contemporaneo di Hugo e Lamartine e molto prossimo alla sensibilità leopardiana, disteso sull’erba, chiude gli occhi, si ritrova solo con se stesso e in se stesso. «Sotto il velo che copre quasi tutti i fenomeni della vita fisica», la sua anima «trafigge spesse tenebre, oltre le quali vede a nudo certi misteri in cui godere visioni più dolci…». Nel Romanticismo la Notte contrasta, con la sua profonda oscurità e il suo mistero, il mondo diurno quotidiano e banale, esalta il sacro, crea un clima propizio a tutte le fantasie del sogno che Gérard de Nerval descrive come «un abito tessuto dalle fate e di un profumo delizioso». Le tenebre custodiscono un sole nero e le più profonde illuminazioni. In Blake si condensa il tempo della visione notturna.

Dietro la facciata della notte incantatrice si contorcono le architetture di turbamento e perdizione di Baudelaire che fanno segno a scenari di poesia e di pensiero inediti. Spetta a Mallarmé, nella lucidità del suo delirio d’insonne, sopprimere, creare per «eliminazione» le sue tenebre e i suoi fantasmi, fino alla paradossale confessione: «la Distruzione fu la mia Beatrice» È con una notte tempestosa, si sa, che il giovane Valéry mette fine al secolo delle tempeste e dei notturni. Proprio lui, che aveva creduto, come riconosce in Variété, di percepire nelle tenebre di Pascal un «bel nero», troppo ornato di emozioni letterarie per essere solo onesto e credibile, proprio lui giunge alla secca equivalenza: «Vedere chiaro è vedere nero». La ragione è notturna; il giorno è derisione. Si può ben comprendere lo spavento della mente di fronte alla catastrofe ontologica che ricomincia ogni alba, annuncio fatale del giorno nemico del pensiero.

Con l’Esperienza interiore, Georges Bataille ci trascina sul versante tanatologico dell’essere, di fronte all’impossibile certezza che incombe, quella del nulla, della vacuità, della perdita. Per non soccombere a una forma di idealismo filosofico o di sublimazione poetica, occorre inseguire la parte tragica del contrappunto. Un linguaggio preso nella passione per l’oscurità non può vivere in qualche modo che per la morte, che per dire la propria morte.

Dobbiamo all’opera della notte la poesia, necessaria in quanto tale? Quella di Joë Bousquet non dispera di trovare e tradurre dal silenzio una frase inarticolata, un suono atono, oltrepassando destinazione e causa, incommensurabili per l’infermità umana. Il buio, inseparabile dal segreto della camera dove il poeta, paralizzato, vive con l’altro morto che porta in sé, è il grembo di un’invenzione allucinata. La scrittura è letteralmente un esercizio della notte, giacché è la notte che gli reca lo sguardo, la notte «sgorgata dalla sorgente sotterranea…, dal sole sotterraneo che gli ingenui chiamano ‘fuoco centrale’».

Notte è l’inconscio nella sua selvatichezza indomita. Chissà, forse solo la poesia potrebbe offrire l’avventura di giocare liberamente col mostro che è in fondo a noi stessi, ma di cui non siamo padroni. Lo potrebbe incantare, dato che non possiamo ignorarlo, né reprimerlo, senza correre il rischio di uccidere noi stessi o gli altri. Di certo, esso incute terrore quando si spinge la chiarezza ad avventarsi su di lui per dominarlo.

Più che all’inconscio, Beckett allude all’oscuro rovescio del luminoso iperuranio platonico in cui l’oscurità, più della luce, è dunque il luogo di una «libertà assoluta». Svanite le coniugazioni delle categorie opposte di bene e male, di amore e odio, di verità e menzogna, di forma e sostanza, nell’assenza di qualsiasi rappresentazione mimetica, di qualsiasi trascendenza simbolica (o semantica), le parole – neppure frammenti di una spiegazione – ritmano soltanto la scansione di una procedura dove la significazione non ha più senso. La scrittura si riduce al bisbigliare delle parole, poiché, com’è detto nell’Innominabile, «la ricerca del modo di far cessare le cose, di mettere a tacere la propria voce, è ciò che consente al discorso di proseguire», a non finire di finire. Cade la Notte.

Adriano Marchetti è docente di Letteratura francese all’Università di Bologna. Dirige le collane “Episodi” (traduzione) e “Metaphrasis” (saggistica). Ha dedicato saggi e traduzioni a Rimbaud, Weil, Jacob, Char, Bousquet, Oster, Bauchau, Jabes, Paulhan. Il suo ultimo libro è La notte. Invenzioni e studi sul nero, Pendragon, Bologna 2004.