Giorgio Bonacini, Oscurità (parte quinta)

Bisogna, dunque, interrogarsi sul senso della poesia ad un livello più basso, più letteralmente terrestre. Com’è possibile la sua esistenza? Cos’è che rende così perfettamente sicuro (e imme-diatamente sensibile) un avvenimento tanto lontano? Ho a dispo -sizione un suono: nient’altro.

Penso a un tentativo d’amore continuamente esaltato e mai vera-mente raggiunto: come una prodezza infantile o una lingua che cerchi in ogni modo la disattenzione sociale. La lucidità di questo lavoro viene attestata da una perdita interiore: nessun destino si realizza in dimensione corporea.

Ma in poesia ogni luogo è possibile: la riscoperta fisica di un’adolescenza, la realtà configurata nelle pieghe di se stessa, l’ombra che sforma e la paura. Non si sa fino a che punto si possa arrivare, ma e intuibile la geometria che ci sostiene: la stessa, suppongo, che sostiene ogni gesto, ogni poesia.

Ha senso anche chiedersi di quanto tempo si dispone, quanta poesia (in termini veramente quantitativi) e possibile scrivere; e per questa via arrivare a un desiderio, forse non sempre legittimo: elargire tutto a piene mani, tutta l’irrequietezza, tutti i tremori e i timori in questa sola misura.

Se la poesia è una specialità della mente, si ha la certezza (quasi morbosa) che l’attrito fra lei e il mondo non sia solamente pensiero, ma l’attuazione di un suo andamento fisico. E non è ancora abbastanza: c’è una forma di vita, una crescita astratta, nella poesia della mente, che me la fa scegliere.

E ciò perché non sono molte le parole che rendono liberi. Spesso ci opprime il ricordo di un senso obbligato, un linguaggio costretto ad essere quello che deve essere. Le parole che rendono liberi (e non ne trovo nessuna adesso, nemmeno la parola “poesia” mi sembra tale) non hanno contorno.

Perciò quando le trovi tutto appare sospeso e sembra svolgersi in autonomia. Le sensazioni salgono (leggere o brutali) in direzione di un volto che è tutt’al più rumore, fruscio... un volto che cambia con l’aria. E non ci si interroga più sul senso della poesia, né sulle parole che hanno avuto libertà.

Così il linguaggio naturale delle cose, tanto impenetrabile, è una metafora pensante, una correlazione perenne che prova a rico-noscersi scrivendo. Ecco perché si ha spesso l’impressione che gli oggetti (anche la mente, quando è oggetto di linguaggio) parlino come se non avessero realtà.

Occorrerebbe allora nutrire il discorso di citazioni, sprecare le voci, la saliva altrui, ma è bene trattenersi. La parola è poca cosa, ma questo “insufficiente scrivere” aiuta a non dover “comunicare”, ad abbandonare il rito consolatorio per dedicarsi solamente a questo unico, scabroso atto.

Ma si può credere a un’adolescenza perenne, a una poesia continua? E nello stesso tempo mettere in mostra, con una volontà perfida e una determinazione quasi suicida, una lentezza impressionante, pensando a una reale consuetudine con il silenzio? Leopardi ci concederebbe il suo aiuto?

Si ha l’impressione di non avere altro che il proprio linguaggio; ma é solo quando lo si indirizza verso la concretezza della poesia, che si avverte di aver raggiunto il limite. Senza mai possederlo però. Così come non si possiede la formazione di un muscolo o l’agilità delle palpebre.

Alla fine si torna a noi: alla nostra collettività individuale fatta di nomi e corpi, cancellazioni e impedimenti, in un barlume di condivisione e consapevolezza dove ancora sedendo e mirando, interminati/ Spazi di là da quella, e sovrumani/ Silenzi, e profondissima quiete/ Io nel pensier mi fingo...

Giorgio Bonacini è redattore di “Anterem”. Per la sua biobibliografia vedi “Chi siamo” nel sito.