Gianluca Giachery : Il segno perduto della poesia

Il testo come feticcio

Barthes propone un accostamento: il testo è corpo che si dispiega attraverso l’evento che ne determina l’incontro. Accanto al corpo dell’amante è possibile percepire l’emozione che distrae dalla coscienza, rendendo il corpo dell’altro nella sua dimensione erotica: esso è il dischiudente, ciò che lascia apparire negando da subito l’immediatezza della conoscenza. È una incessante sottrazione, che richiede una mediazione (Se e l’Altro, non Se o l’altro). Dalla semplice congiunzione (che riscatta l’oppositività dello scrittore volta al continuo allontanamento) si svolge un’intermediarietà che solo apparentemente ristabilisce l’ordine delle parti (scrittoreÞ testoÞ lettore). Il testo scompensa qualsiasi ordine del discorso, prospettando sempre un’alterità che genera nuovi piani di immanenza (mobili), sui quali si innestano diversi discorsi, diverse narrazioni. È questa polisemicità a rendere il testo nell’attraverso della scrittura. È la scrittura a separare le forme e unire i tratti che si combinano tra di loro per rivelare la profonda asimmetricità dei piani. (Qui risiede il problema dell’inizio e della fine del testo).

Come il corpo, il testo si sottrae alla concessione gratuita: o dà di sé l’essenziale, oppure si mercifica rendendosi oggetto che reifica un tributo. Diviene cioè simulacro di una ripetizione.

L’avvicinamento sottende sempre un’attesa, un’aspettativa che non si risolve mai nell’impeto della cupiditas, del voler ad ogni costo appropriarsi dell’oggetto. L’avvicinamento è fatto di attese, di piccole rinunce, di tentativi che costituiscono il movimento stesso del testo: in esso, infatti, si trova l’amante capace di custodire un segreto liminare, ciò che annuncia un inaspettato incontro.

Cosa custodisce il testo? La storia, narrazione che si dipana dinanzi ai nostri occhi donandoci il piacere segreto dell’irrinunciabilità di quel particolare momento; le figure, i personaggi che si costruiscono l’uno accanto all’altro quasi a voler suggellare il richiamo ad un mondo altro; il nostro sguardo ansioso o genuinamente rilassato dal piacere, la nostra voce pronta a scandire parola per parola, lettera per lettera il procedere di una simulazione. Il testo custodisce questo e altro ancora.

È profondità. Custodisce poiché nasconde. È una sua funzione precipua. Il testo nasconde ampliando le possibilità di lettura (semplice atto che mette in relazione con esso), trasportando con sé (e fuori di sé) il senso delle allegorie, dei fantasmi metonimici che incarnano un passaggio. Il nascondimento presuppone la fatica della scoperta, l’impegno a cimentarsi e legarsi in modo continuativo alle movenze della parola, ai suoi traumi, alle cesure che (pronunciata con veemenza o silenziosamente) crea. Tuttavia, il nascondere, il custodire generano l’eccedenza che circonda la storia testuale: il testo non si sottrae al destino degli oggetti che popolano la contemporaneità. Esso diviene merce. Per questo si utilizza il testo per procurare un piacere, il sottile fondo della parodia.

È contraddittorio, si può comprendere. Proprio in questa contraddizione (che è il paradosso delle merci nel momento in cui si trasformano in feticci, perdendo il proprio valore d’uso/scambio) risiede il suo valore d’eccedenza. Lo scambio “s’impadronisce del testo, lo immette nel circuito delle spese inutili ma legali: eccolo di nuovo collocato in un’economia collettiva (anche se puramente psicologica): è proprio l’inutilità del testo che è utile, a titolo di potlach” (R. Barthes, Il piacere del testo, pp. 91-92). È questo scambio estenuante, ripetitivo a rendere il testo feticcio.

Nessuno meglio di Freud ha descritto il carattere di feticcio di alcuni oggetti cui rivolgiamo il nostro desiderio: essi sono permeati di un’aura particolare che ne trascende il senso, perdendo qualsiasi legame con la realtà. Il feticcio si sostituisce all’oggetto, essendo un’elaborazione del pensiero, svuotandolo di significato per renderlo una sorta di oggetto-oggettivato. Solo in questo modo l’oggetto-feticcio può soddisfare indiscriminatamente la ricerca di piacere. “Il testo – scrive Barthes – è un oggetto feticcio e questo feticcio mi desidera. Il testo mi sceglie, attraverso tutta una serie di disposizioni invisibili, di cavilli selettivi (…); e, perduto in mezzo al testo (non dietro, quasi un dio da macchinario), c’è sempre l’altro, l’autore” (ivi, p. 94). Eppure il testo-feticcio nasconde (tra le tante) anche l’angoscia della profondità. Mescolata ad essa, quasi fosse tutt’uno, sta la perdita dell’oggetto, lacerazione che costringe a trasformarlo nel senza-più-vita, completamente a disposizione del nostro godimento.

 

Parole di poeti

Vi sono testi poetici (penso a quelli di Giorgio Caproni) che si intersecano al segno su piani diversi, custodendosi in una metamorfosi di simboli che avvertono della lacerazione imminente. È come attraversare un ponte e, affacciandosi ai lati, vedere svolgersi le immagini dell’esistenza. Non un’esistenza qualsiasi, ma quella esistenza poetica che assegna per sé un ruolo nomade. Ciò può dirimere rispetto alla lacerazione, cercando una molteplicità di vie che riportino alla mancanza iniziale intorno a cui l’essere si arrovella sin dalla nascita.

Platone aveva già visto questa lacerazione, che si pone come alteritàtra semen e soma, riportando nel Cratylo il detto di “altri” (qui: l’alterità?): “E dicono alcuni che esso [cioè il corpo] sia il sema [segno, tomba] dell’anima, quasi che essa vi sia sepolta nella vita presente; ed anche per questa ragione, che con esso l’anima significa ciò che significhi e perciò è giustamente chiamato sema” (Platone, Cratylo, 400 b-c).

Caproni riprende questa lacerazione. Proponendo la simulazione di un non-luogo. “M’ero sperso. Annaspavo./ Cercavo uno sfogo./ Chiesi a uno. ‘Non sono,’/ mi rispose, ‘del luogo’” (G. Caproni, L’opera in versi, p. 322).

Il disperso è colui che tra le maglie della scrittura fruga di continuo il senso dell’esistenza, lasciandosi alle spalle l’esistente, non con il guizzo dell’aristocratico che rifugge dalla quotidianità, ma come chi conosce gli orrori e le paure della dispersione che fa vacillare l’anima, che ritiene e poi con un fragoroso smottamento sconvolge gli equilibri d’un sempre precario assestamento. Allora, solo allora, il poeta può domandarsi, come in una postilla: “(Non ho saputo resistere/ al suo non esistere?)” (ivi, p. 332), ponendo tutto tra parentesi, in un’epoché che lasci sospesa ogni continuazione. Egli sta lì ad osservare e, così facendo, ritaglia ancora una spazio di mondo nella propria vita, in attesa dello scompiglio che rimescolerà tutto in un dissidio. “Imbrogliare le carte,/ far perdere la partita./ È il compito del poeta?/ Lo scopo della sua vita?” (ivi, p. 363). È questo “gioco” a farci apparire spesso un testo poetico (così come quello filosofico) insensato, incomprensibile? Allora esso è sicuramente accostabile all’“insensato gioco di scrivere” di cui parla Blanchot.

Vorrei dire ancora della poesia, soffermandomi sull’esperienza del suo testo, così poco conforme ad essere considerata una scrittura della condivisione. Essa viene piuttosto percepita come un limite, l’incapacità a rendersi conto dello spostamento (il sisma di cui si è parlato poc’anzi) che ci obbliga ad essere nomadi. Piuttosto essa è “una parola di soglia” (das Schwellenwort), come afferma Celan.

 

I testi dei filosofi

Ho accennato all’inizio e alla fine del testo, dovrei dire, forse, della scrittura. In questo modo si diviene consci che, in realtà, ci si adagia sul libro, involuzione dell’elementare processo della vita.

“… i testi che leggo e rileggo – afferma Derrida – sono sempre nuovi per me. (…) È anche una certa amnesia a darmi questo gusto, che si può considerare una forza o una debolezza. Non dirò che so dimenticare, ma so che dimentico, e che non è solo né sempre un male, anche se ne soffro” (J. Derrida, M. Ferraris, Il gusto del segreto, p. 43). Nella costruzione delle nostre ipotesi, dei nostri testi, spesso bisogna dimenticare chi ci ha preceduti, per tornare poi a ricordare (ma è solo un vezzo della memoria?) quei filosofi la cui parola ha rappresentato il turbinio di una vita, la solerte (e a volte disprezzata) pazienza necessaria a costruire concetti. Proprio di questo si tratta. L’ermeneutica (divenuta ormai una tecnica di mestiere) ha insegnato a ben chiosare (decostruire e, vorrei dire, a lasciar decantare) scritture che non si degnano più d’una lettura serrata, perché si preferisce ascoltare chi ha già scritto su di esse. Ogni scrittura (a maggior ragione quella filosofica) è un arbitrio, il risultato di un tentativo di dis-alienazione che appare e scompare dando l’illusione d’aver trovato un nesso causale (o casuale?) nella decifrazione dello spettro del mondo.

È per questo che si denigra la filosofia, perché si crede d’aver scoperto il meccanismo della sua inutilità. Così ancora una volta ci si ferma all’apparenza, poiché anche se si crede nell’infallibilità della tecnica non si fa altro che riproporre un testo che si adagia sull’illusoria capacità d’essere molteplice, “vestito buono per ogni stagione”.

Cedendo lo spazio filosofico si ostruisce una passione che è passione per la lingua, per ciò che necessita un atto di rinuncia ad una parte di sé. Attraverso tale rinuncia il filosofo proclama la frammentarietà del reale, l’impossibilità a percepire in modo unitario il mondo e le sue relazioni, unico tramite di contiguità.

È una maledizione possedere la necessità di chiosare i testi filosofici, di posarsi accanto ad essi e riempire interi quaderni con citazioni, brani, interi paragrafi che giustifichino il proprio pensiero. Quasi come tracciare un albero genealogico, una mappa genetica che ci riconosca figli di quel tale o talaltro pensatore. È nota l’ossessività con cui Benjamin riempiva foglietti e piccole schede con la sua minuta scrittura costruendo quel libro impossibile che è il Passagenwerke. È altrettanto nota la sua idea di voler creare un libro di sole citazioni, il libro di tutti i libri, un enorme mosaico senza alcun autore e al tempo stesso con una collettività d’autori mimetizzati nella palude della non-appartenenza.

Da Nietzsche in poi il testo filosofico ha proclamato la propria rottura con la precedente tradizione, permeandosi della necessitàdi porre innanzi a sé non la programmatica discussione di ciòche èil fondamento (della metafisica, dell’estetica, della scienza ecc.), bensì liberandosi da qualsiasi riferimento ad esso, pur cadendo nell’ambigua trappola (fascinosa e seduttiva) di un pensiero che naufraga silenziosamente nelle proprie incertezze. Così l’aforisma (genere di per sé letterario e, in passato, privo di qualsiasi qualità speculativa) diviene il riferimento costante della speculazione nietzscheiana, il percorso che conduce a un non-dove che è, appunto, perdita. La penna del filosofo “raspa”, ma si trova ad arare un campo inaridito da secoli di incoltura.

“La penna raspa: è un inferno!/ Son io dannato a dover raspare?–/ Arditamente afferro il calamaio/ E giù densi fiumi d’inchiostro./ Come affluiscon pieni, come larghi!/ Come ogni cosa che faccio, mi riesce!/ Manca invero allo scritto la chiarezza–/ Non fa nulla! Quel che scrivo, chi lo legge?” (F. Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, p. 47)

Ciòche permea il testo filosofico è, dunque, l’estrema passione che congiunge il pensiero alla scrittura, la ricerca della e attraverso la conoscenza non (e mai) disgiunta da quella peregrinazione interiore che si pone in costante confronto con l’alterità. È quanto ottiene Nietzsche, ammonendo i “realisti”. “Voi uomini sobri che vi sentite corazzati contro la passione e i capricci della fantasia, voi vorreste gloriarvi del vostro vuoto e pavoneggiarvi con esso, vi chiamate realisti e date a intendere che il mondo sia realmente costituito nel modo che appare a voi: davanti a voi soli la realtà starebbe senza veli e voi stessi ne sareste forse la parte migliore” (F. Nietzsche, ibidem, p. 102). Questo brano, che s’anima dinanzi ai nostri occhi, pretende quasi un ossequio, un’attesa ironica che desti finalmente chi ancora osi pensare che tutto ciò che appare è realtà, che il mondo s’apre all’uomo nella sua verginità.

La questione, dice Nietzsche, si gioca tutta sull’ebbrezza che s’avverte nel rapporto con il mondo: chi non riesca a vivere tale ebbrezza (il caos della stella danzante!) è come tagliato fuori dal flusso dirompente della vita, condannato invece ad arrovellarsi nelle proprie elucubrazioni. “…forse – scrive Nietzsche – la nostra buona volontà di tirarci fuori dall’ebbrezza è altrettanto rispettabile quanto la vostra convinzione d’essere del tutto incapaci d’ebbrezza” (ivi, p. 103).

In questa ebbrezza (lungi, sembra, dallo slancio dionisiaco dello Zarathustra eppur così paradossalmente vicino) è tutta la capacità del filosofo a creare concetti, a farsi promotore attraverso il proprio testo dello scandalo generato, ad esempio, dalla parola verità: chiunque abbia coscienza d’essa ne rifugge come dinanzi a un fantasma. Eppure, avvalorando i continui emendamenti ai testi filosofici che vengono da chi ama che la parola sia inevitabilmente interpretata, sostiamo increduli, quasi trasognati dinanzi al leggero battito di “stupidità” che ci riporta alle cose ovvie, alla capacità di nutrire il dubbio degli incapaci o, per dirla con Voltaire, del “filosofo ignorante” che socraticamente ammette la propria limitatezza. Un monito, allora, ancora da Nietzsche, che ci costringe a leggere il testo filosofico con l’ingenuo dissapore di chi vive nel proprio tempo: “Occorrono dunque intelletti virtuosi – ah! Voglio usare la parola più inequivocabile – occorre la virtuosa stupidità, occorrono coloro che battono imperturbabili il ritmo dello spirito lento, affinché i credenti della grande fede collettiva restino insieme e proseguano la loro danza: è una necessità di prim’ordine che a questo punto impera e pretende” (ivi, p. 113).

Su questa urgenza il testo, che raspa la propria infernale perversione, svanisce come per ritrovare un originario perdono.