Maria Paola Svampa: Nota teorica e poesie inedite

Solvitur Ambulando. La poesia come incontro. 


     Io non ho un programma, squadrato in bianco e nero, piegato netto in tasca, da squadernare a piacimento. Al massimo – passeggio – leggo, e prendo appunti. E tra i miei appunti – tre punti mi stanno a cuore – il corpo, la performatività, e l’incontro. 

     Doppia chiave 

     Che la scrittura delle donne sia una scrittura del corpo non vengo certo a dirvelo io. La “questione” sta semmai in come questa chiave (di lettura, e legatura) venga usata, ed abusata. Come tutte le chiavi, la si infila per aprire, ma anche per chiudere.

     La porta della mia stanza è una di quelle vecchie porte a doppia chiusura, con chiave e chiavistello non comunicanti. Un chiave esterna serra e disserra a capriccio la stanza – e all’interno tiene un chiavistello, che stringe la stanza da dentro, e si schiude solo per scelta. È questa incomunicabilità, di chiusure ed aperture, che genera la relazione. Con una sola chiave, con una sola serratura, non si dà tensione, ma rapporto di potere – dentro, fuori – non si dà comunicazione.

     La parola del corpo ha avuto il merito di schiudere l’ingresso al laboratorio dell’esperienza poetica. L’errore sta nell’usare poi questa parola del corpo come serratura singola ed inerme, da aprire – e soprattutto da chiudere – a chiave, da fuori, senza considerare la controparte interna. Far riferimento sempre, comunque, ed acriticamente al linguaggio del corpo quando si parla di scrittura delle donne è una seduzione macchiata di cattiva coscienza. Non fa che perpetrare l’antica equazione “donna uguale corpo”. L’insidia sta nel fatto che essa seduce la stessa parola delle donne, spegnendone il carattere. L’adulazione programmatica e normativa della “specificità” della nostra parola ci incasella – la chiave ci chiude in cella, ancora ed ancora ed ancora: fine dei giochi. Se la parola delle donne è automaticamente una parola del corpo, allora c’è poco d’altro che essa possa dire. Come se la “mente” esistesse fuori dalla carne, e come se anche gli uomini non pensassero da “dentro”.

     L’errore sta nel pensare che la scrittura delle donne parli semplicemente del corpo – e come tutti sappiamo, ogni brava donna se ne sta prima di tutto dentro al suo corpo, a fare l’amante, la mamma, la vergine. Questo rende la parola delle donne irrimediabilmente e costitutivamente isterica, e ne stronca la portata trans-gender.

     Le donne non parlano del corpo – parlano dal corpo. Parliamo da un luogo ineludibile ed incancellabile, con la consapevolezza che quando si parla – o si legge – non si è mai originariamente illibati, intoccati dall’esperienza, e che quest’esperienza avviene solo nel corpo. Il corpo non è solo il corpo femminile – ma è la modalità dell’esistenza e della riflessione umana. Il corpo non è una chiave di lettura, ma la carne ineludibile e calda dell’esistenza, ed anche dell’esistenza del testo. Il corpo non è uno strumento critico, ma dato fattuale e pulsante. “My body is not your battle-ground”, dice Mohja Kahf nelle sue E-mails from Scheherazad. E non va trattato come tale. Nè sulla pagina, né sulla piazza.

     La parola delle donne ha il merito di aver aperto e reso centrale l’essere materialmente “locato” del soggetto parlante. A chi legge non spetta una preoccupazione definitoria e circoscrivente, non l’uso arbitrario e rassicurante di una chiave. Chi legge è tenuto, è chiamato ad oltrepassare la porta, a scoprire il proprio pensiero come irredimibilmente locato nel proprio corpo. La novità della poesia delle donne, semmai, sta nel “pro-vocare” il lettore a ri-conoscersi come soggetto incarnato. 

Prendere la parola 

     Una parola che nasca consapevolmente ed intenzionalmente dal corpo impone per coerenza una riflessione sulla stessa sul fenomeno della produzione linguistica. La parola poetica, e forse non solo essa, non nasce come parola astratta, come puro pensiero tradotto su supporto materiale. La parola poetica è di natura fisica già nell’istante del concepimento. Il verso nasce come pensiero in ritmo, e cioè come spostamento sonoro, e quindi fisico, sensoriale, attraverso il cronotopo.

     Ma un verso, per realizzarsi come tale, deve ovviamente essere fruito, e riconosciuto come tale. La lista di personaggi da scomodare in materia è infinita, e passa per Sartre e Marziale. Un verso allora, se nasce come unità ritmica, come nodo indistricabile di carne pensiero ed azione, e se si compie solo attraverso la fruizione, può essere valorizzato dalla performatività.

     Ma con performatività non si intende solamente “l’offrire pubblica lettura di un testo poetico”, attività peraltro utilissima ai fini di riattivare il rapporto con il pubblico. La performatività è una struttura profonda del testo poetico. La parola, ed in particolare la parola poetica, nominandole, chiama le cose all’essere. Questa è la natura prima e costitutiva della performatività del linguaggio poetico (e non solo). La parola poetica nasce come stringa ritmica il cui movimento sonoro attraverso lo spazio ed il tempo costituisce elemento fondante della significazione.

     È a questo punto piuttosto difficile immaginare un testo poetico che “non funzioni” nella performance, o un autore che “non sappia” leggere se stesso. Quando questo accade, siamo di fronte ad una mancanza. Una mancanza che può essere intenzionale, e che quindi diventa strategia (anti)comunicativa, rientrando così nell’ambito della performatività; ma che spesso, purtroppo, è solamente una mancanza inconsapevole.

     Pensare alla lettura, e perché no, anche alla lettura a voce alta, e alla lettura reiterata come avvicinamento al testo non significa solamente prendere atto della natura del testo poetico come pensiero materico. Significa anche aprirsi al fruitore sin dall’inizio, sin dall’atto creativo, ammettere alla coscienza che la creazione è un atto sociale, liberandosi così dalle mitologie solipsistiche. 

La poesia in cammino 

     La parola è un’arte impura – e sporca è la poesia. La parola sarà anche ombra di un’idea – ma porta addosso l’odore del mondo e di ogni luogo in cui è stata. La poesia s’impasta fango d’albero e sputo di seppia, asciugato dalla polvere della via, perché tutto – è – materia. Soprattutto in poesia, fatta di ragioni, misure, metri, piedi...

     La “ragione” di un testo poetico è nel suo libro conti, elenco bruto, economico, ponderato, valutato, misurato. Nel libro di conti s’incontrano calcolo e materia; la sua misura sana la frattura (tutta immaginaria) tra l’astratto ed il concreto, tra un passato di cui dar conto ed un futuro da programmare – proprio come avviene nel testo poetico. Il libro conti possiede tutta l’oggettività d’uso che gli viene concessa da chi lo usa, da chi lo interpreta. Il libro conti non sta a sé ma, legato alla “realtà”, lega chi lo redige e chi lo legge.

     La poesia è fatta di misura. È fatta di movimento – scorre, s’impunta, ristagna, procede a salti, si sustanzia solamente nello spazio e nel tempo. La misura è un palmo di strada, uno dopo l’altro, scopo, ragione e mezzo costituente del viaggio. È la misura fa il viaggio – e la poesia, che si fa viaggio. La misura è una curva percorsa, la misura è carne numerica, la misura ci fa, e ne disfa il senso.

     La scrittura dunque innesca un incontro tra pari, in cui chi legge conta tanto quanto chi scrive, chi dispone del testo conta tanto quanto chi lo propone; essa genera una democrazia della differenza, della donazione di senso, dell’ascolto, della costruzione. Il testo è una strada, ed è su questa strada, in questo viaggio, che avviene l’incontro, o meglio molti incontri. Incontri combinati, a volte; a volte appuntamenti al buio.

     Se mettersi attorno al testo – leggerlo, scriverlo, parlarne, anche solo osservarlo – significa mettersi in strada, allora tutto ciò che possiamo sapere del testo non è che conoscenza di viaggio, o meglio, conoscenza in viaggio. Non possiamo parlare di viaggio (fisico o meno che sia) dal centro di una fissità, senza aver accumulato miglia e miglia nei piedi e nella mente, senza accettarne il carattere precipuo di incontro in movimento. E se la poesia è un viaggio, non possiamo accostarci ad essa muniti di concetti “incellophanati”: per andarle incontro dobbiamo essere disposti ad intraprendere ogni volta un viaggio, con tutti i rischi e le rivoluzioni che esso comporta. Perché un viaggio interroga le origini, e talvolta le modifica. E così se la teoria legge la poesia, oggi la poesia usa la teoria, la piega, la celebra e la sbeffeggia – le getta il guanto di sfida. Oggi, sta a noi lettori raccoglierlo.

     Non si tratta di abbandonarsi all’impressione fuggevole di una “esperienza” passeggera, ma di mettersi, ogni volta, in umile ascolto del testo. “Rimanere presso il lavoro” diceva Cézanne. Io sto dalla parte del lettore. Avvicinandoci al testo non siamo mai vergini. Né possiamo “uscire” da noi stessi, spogliandoci della carne del nostro vissuto e delle nostre conoscenze. Ma non possiamo limitarci a leggere il testo come uno specchio entro il quale troviamo conferma delle nostre teorie e delle nostre conoscenze acquisite. Un testo è una chiamata ad un incontro – sta a noi metterci in cammino, e intraprendere il dialogo. Un testo si scioglie solo percorrendolo. 

     I testi che seguono sono delle missive, degli appunti di viaggio, ponti caracollanti, dialoghi forse impossibili tra i soggetti, ma tentati – tra il testo e il lettore. Le miglia marine e terrestri sono il segno di una distanza incolmabile eppure cercata,  ribadita come autoaffermazione, esuberante o ripiegata. Tipi e generi di una tradizione (auto)ironicamente usurpata e miscelata in fondante ambiguità non hanno il valore di un compiaciuto capriccio combinatorio. Questo è un tentativo, seppur barbarico, di rimettere in moto nel testo le tradizioni, i generi, i pensieri, le parole, la carne, così come essi sono simultaneamente all’opera nel reale.  



Testi poetici


la selvaggia sul ponte 


Distesa coll’odore appena amaro • che amo incassato in faccia • io - sono - Berthe • Berthe dai begli occhi - Berthe la fraintesa - Berthe la disprezzata - Berthe bambina cattiva • che non ha mai scritto a te • Berthe rotonda e nera - tranne che al sole • bestia di questa terra • di sera - di nodi di lana verde • spighe e rivoli di fuoco - orlati di spighe ancora - spighe e fuoco • dentro e intorno agli occhi • Berthe che abita il mare • quel mare che per te era vacanza per me era l’unica via • e mentre tu giocavi con le vele - io mi aggiustavo gli alamari spianavo la mia giacca blu e consunta• come tintinnano dorati • i miei crini d’Achille - le mie ciglia bionde • Berthe piccina e nera - rotonda e nera • m’avvio lungo il molo • per saluto una risata • perché solo legata • al grande albero di pino bianco • Dio com’è bianco - d’alabastro diritto polito e mio • mia ancora - mio arpione - mio rostro in ogni senso • soprattutto in quello che non sai – capire – carpire • perché Berthe da piccola era Greta • e sosteneva che fosse già morta • ma era solo una scusa per non comportarmi bene • per tagliare quadrati di mare • e dare la colpa al gatto - si sa che ogni nave ne ha bisogno prima o poi  • Berthe o forse Bertha • che porta il fuoco nei sogni • considerate le parole che inseguo - presto più presto • trafiggile con una freccia – la mia freccia d’ebano e calda • prima che s’acquattino nel buio – sotto la luna • le mie perle le mie - collane di perle • che da sola tendo tutt’intorno - alle impurità del mondo - a non ferirmi la carne • e non sono le vostre collane • angelo ninfa e musa no grazie • a me • lasciate  • il desiderio • ad essere una pagina bianca – e nera • non mi sono ancora • arresa • Berthe la malappresa - Berthe rotonda e nera • nena • Berthe l’ispanica – dai capelli rossi • Berthe che ha come sempre • troppo sole spalmato addosso • e ne brucia l’aria d’intorno • finché non s’affievolisce il fiato • e allora ride – mistero superiore • di sé – di te – e di tutto il resto 



la strada per roma

vent’anni dopo · la strada per roma è ancora lì · bianca intatta immaginaria immaginata impercorsa · solo che stavolta · si allunga ancora più in là · segue il corso degli imperi · quest’impero del sonno · questa lana verde e dorata · che i tuoi occhi azzurri che la tua pelle rossa · amavan tanto · non si è mai destata · il grande sonno · nella luce di sorbetto della sicilia · non c’è mai stato · ma puoi trovarlo qui · nelle pieghe grasse e antiche · imberbi · nell’ombra di pioppi sulle nostre guance · ed ora · nel bianco scheggiato · di questi campi scoscesi scosciati indecenti · east of nowhere · da qui · siamo sempre dovuti fuggire · fuggire dalla terra ma l’argilla · ci rimane sulla pelle · puoi annusarla · nello sguardo sbarrato e spento nell’accento greve su ogni pezzo di carta dell’impero · ai confini dell’impero · noi ci siamo per statuto · dimenticati nella norma · con la nostra malinconia la nostra fatica cupa e muta · chiusi come le nostre valli · il limite ce lo portiamo in bocca · in questa lingua che non conosco · ma il cui retrogusto · persiste · è il vinello dei poveri · la nostra rassegnazione · è istituzione · la portiamo scritta · nel nome · nella dimenticanza · questa terra che non sappiamo lavare · ibridi inutili marginali · nessuno · ci ha mai · accolti · e qui · non abbiamo spazio