Flavio Ermini da “Il poeta”

«Vedi, io salgo, vedi, io cado, sono un altro, non un altro», fa segno Celan.

Mi metto sulle orme di quel movimento che precede la parola, in un protendermi “verso”, un protendere che interpella e invita.

L’evento silenzioso dell’origine: non si tratta di violarlo, ma di custodirlo in forma di parola, nella parola stessa. Perché ciò accada, a ogni parola va imposto di separarsi dal senso che le preesiste.

È vero che l’origine si configura come effetto di un gesto che la precede. Credo che sin da ora io possa parlare a questo proposito di sradicamento, lacerazione, scissione.

Si tratta di interrompere la relazione che abitualmente intrattengo con la parola. Tale sacrificio pone fine ai legami abituali, per creare quel vuoto che consentirà l’inaugurazione di un nuovo senso.

Certifica Luzi: «Da segno convenzionale a parola che dice, questo è l’itinerario della scrittura poetica». Senza dimenticare che a sua volta il segno convenzionale ha le sue radici nella parola che dice.

Mi domando: è ancora pensabile l’autonomia del sensibile rispetto all’intelligibile? è lecito che i sensi facciano a modo loro?

Non soltanto un altro occhio, capace di vedere il nascosto, ma anche un’altra lingua, in grado di dire l’inespresso, lasciandolo esprimere.

L’esperienza poetica è una caduta esistenzale nel pensiero prelogico, una discesa verso il cerchio oscuro della «monoocularità delle origini», come scrive Benn, e delle «polifemie» della creazione.

(Il poeta è un tenace e irridente scrutatore della condizione umana, della quale documenta con meticolosità la lenta dissoluzione. Il fiume delle sue considerazioni è un intreccio di molti rami, con furiose rapide e vortici. Le risultanze della sua ricerca portano a un grido. Quel grido che i frequentatori della disperazione umana e della follia come Munch, Hölderlin, Nietzsche, Van Gogh non hanno smesso di ricordarci nelle loro opere.)

Pensavo anche a quel frammento di Eraclito: «Quando la sua vita è spenta, nella notte accende una luce a se stesso; e vivo è a contatto col morto, e desto è a contatto col dormente».

L’esperienza del limite: l’origine, uguale a zero (penso al Significato delle tragedie di Hölderlin). Per poi esporsi all’Altro (penso a Edipo il Tiranno di Sofocle).

Sono quello che scrive e sovverte se stesso scrivendo. Come annota Foucault: «Quando scrivo, lo faccio soprattutto per cambiare me stesso e non pensare più la stessa cosa di prima».

Invitato a essere quello che scrivo, eccomi qui. L’avvertimento mi è giunto: se cerchi la poesia fuori di te, voltandoti la perderai.

Quando non sono io a pensare, qualcosa emerge in me pensante come uno sviluppo che a un certo punto si estende sino a me…

Dico ascoltando; in un riudire che porta a parola l’inespresso.

Qui il senso non è mai pienamente presente, ma si dà come differimento continuo, traccia. Siamo o non siamo all’origine di un evento?

L’uomo può avanzare, scrive Benn, «fino a quelle sfere dove nella totalità stanno antichissime sfingi».

In questo viaggio a ritroso c’è il senso della tradizione autentica: quella tradizione che risale all’infinito verso il luogo dell’origine, ripercorrendo quell’itinerario che l’umanità ha già compiuto e che si arresta di tanto in tanto per ascoltare le voci che hanno parlato prima di me, di noi.

«Tu e tu, voi dovete rimanere», intima Celan.

Estratto da Flavio Ermini, Il moto apparente del sole, Bergamo, Moretti&Vitali, 2006.