Enzo Campi, una poesia inedita, “Andirivieni”, nota di Ranieri Teti

Il paradigma drammatico, l’accumulazione espansiva, l’inserto, la ridondanza, il controcanto, il piacere, anche visivo, offerto dagli scarti di ritmo tra poesia e prosa poetica, gli innesti, l’horror vacui, le sequenze, l’andamento esaustivo e mutante, il discorso poetante quando si trasforma in storia, le domande irridenti e sospese, le assonanze interne ai versi, l’assenza lirica, il mistilinguismo, un’idea centrale che genera la gravità che contiene tutto il corpo del poema, e altri, moltissimi altri sono gli elementi che strutturano il testo lavico di Enzo Campi.

Tra il titolo del brano e la citazione, tra andirivieni ed eterno ritorno, tra segno e simbolo, si realizza l’incastro di filigrane che compone la trama di un grande arazzo pulsante, che raffigura un universo dove vengono interrogate, scomposte e ricomposte, le difese dalla storia e dal reale.

 

 

Andirivieni

 

Getta il tuo peso nel profondo!

Uomo! Dimentica! Uomo dimentica!

Divina è l’arte del dimenticare!

Se vuoi volare,

se vuoi essere di casa nelle altezze,

getta in mare ciò che in te è più pesante!

(Friedrich Nietzsche)

 

lavora tumido il tamburo

si permea abiurando il piede

in cui forcludersi e sopravvivere

 

tekua aukèn

nekù keùn

ekuàn ketua

 

pneuma sordo risuona

compatto a spaziare spartire

 

         tumer ora

         rem rume

         temur metèm

 

         si spinge battendo e modula

         nel ritmo l’idea di un connubio

 

         thumos soma

         thauma aumàt

         masoch muthos

 

 

Così cantò la sirena. Si cantò verace e vorace

riproponendo la solita interrogazione:

 

quale senso?

quale sesso?

 

C’è una ruota che gira, caracolla dal pendio fino a valle.

E poi risale. Scandisce il ritmo dell’inesausto andirivieni.

Ditemi, Voi che tutto sapete: la tigre che vive nel cuore

del leone è l’anima al femminile del viandante?

 

lavora livido il tamburo

si percuote mortificando la pelle

in cui conclamarsi e svanire

 

Dalle tombe si levano tuoni. Per ogni tuono un ruggito,

un artiglio che raspa nel limo fino a sradicare il midollo

della madre terra. È questa la sua voce? Un tuono?

Dagli abissi si levano in volo uccelli rapaci. Per ogni

colpo d’ala uno stridio lancinante che perfora i timpani.

Questa cosa che chiamiamo profondo, che si forgia nel

male, che sale come luminanza in una nube di vapore,

questa cosa è la nostra casa, la nostra gabbia. Ed è qui

che vive la danza, la piuma che ancora rischia il volo

radente sui corpi degli astanti, la schiuma in cui la vulva

della sirena cerca il collo del serpente in un crogiolo di

scaglie e di squame, il trauma del ruggito che inaugura il

pasto sacrificale in cui ciò che viene meno è proprio il sacro.

 

C’è chi dice che Aracne fosse nata Sirena e che la

sua ragnatela fosse un circuito di onde sonore.

Melodia e ritmo, sono questi gli strumenti della

cattura, della fattura, della tortura. Ma la Sirena

parla la sua lingua che è eterna e incomprensibile.

 

epi thumìa thymo

res aimù pithe

ahum uma pié

pneùm ipo thepì

 

Così cantò e chiamò. Chiamò a sé l’ignoranza e

l’inettitudine del comune mortale annunciando

l’avvento della beatitudine e dell’appagamento.

 

lavora atavico il tamburo

si trascende graffiando la vena

da cui dissanguarsi e gioire

 

Ma non vedo chiodi d’intorno. Dov’è il palo incrociato?

Non vorrete negarmi il supplizio? Dov’è il coro delle

prefiche? Siamo tutti invitati alla sacra guerra tra bestia e

bestia. Umano troppo umano: è questa la sentenza del coro!

E il viandante, vorace di fame e di fama, esplose il suo

sdegno: chiedete e vi sarà dato, chiedete e vi sarà negato!

Quale scarto tra la gloria inevasa e le ceneri di un passo

abortito? C’è qualcuno così folle da permettersi il lusso

di rispondere? Quale discrasia tra una piuma incenerita

e la gabbia che preserva il maltolto? Ditemi, Voi che vi

illudete di sapere: la ruota gira sempre a favore delle ore?

Se cerco nel cuore del leone l’anima della tigre sarò

tacciato come servo o come sovrano? Tra sovranità e

servitù un filo sottile di rame propaga la scossa, il fremito

che inaugura lo sguardo d’intesa e la stretta di mano.

Fu così che il re si rese plebeo, fu così che il viandante

santificò la complicità coi suoi amici animali e chiese

al serpente la chiave d’accesso al cielo delle sette solitudini

e delle sette eternità smarrite nelle biforcazioni dei sentieri.

Perché è sempre una questione di scelta. Ed ecco che si

procede, in circolo e sempre a ritroso, per giochi d’impronte

lasciate a commiato, come per dire ho impresso la marca ma

ho inteso trasferire il calco altrove per rendermi prossimo

al trauma del pasto selvaggio. Ci si illude, se pure ridendo,

che il pianto non venga versato a caso su questo o quel rudere,

sulle carcasse dilaniate esposte in bellavista sui coacervi di

letame. Vittima ed insieme carnefice? È questo il destino del

viandante? Malato ed insieme guaritore? È questo il supplizio

da rinnovare in eterno? Se così fosse, e mai lo è,

non ci sarebbero alti né bassi come parametri di

riferimento all’incauto transito di quest’inutile verbo

votato alla dissoluzione, se così fosse, e mai lo sarà,

non ci si dovrebbe sfinire nel creare laviche parabole

a suon d’iperboli e anacoluti, se così fosse, e non lo

è mai stato, potremmo sederci in riva al fiume sul

masso più liscio per meglio scivolare e abbandonarci

al docile flusso in cui rischiare l’estasi dello stallo dinamico.

 

Tendere la mano alla bestia? Perché? Per consegnarsi

al sacrificio? Se nel mare non riesco ad inabissarmi, se

nel volo non riesco a precipitare, se nel farmi sbranare

non riesco a donare le mie viscere si può dunque parlare

di sacrificio? Silenzio! Ciò che qui parla è il mio fallimento!

 

jo tona auri

thoma tem urìah

ja kem ri-ti-ki tom

to tarà kiti

methèm to them

oj aton aurì

 

Non è importante comprendere le parole se sono le bestie

a condurci sull’orlo del precipizio. Ma la pietà che il viandante

ostenta è falsa. Egli non offre la chiave d’accesso e il coro si

manca nell’effrazione mancata. E le bestie lo sanno, lo hanno

sempre saputo, per questo si prendono gioco del coro e si

industriano ad allestire l’impalcatura del giogo. È sempre

questione di sottomissione. Il serpente lo sa, per questo

finge di strisciare. Anche il baccanale puzza di stantio.

Il vino è edulcorato con acqua di palude. Dalla selvaggina

fuoriescono frotte di vermi in parata. Perfino i satiri e le ninfe

abbandonano, mesti, il palcoscenico ove ogni verità è bandita.

 

         Nulla di

nuovo, tutto

normale e 

normato,

e scontato.

Così il

tronfio volatile

disegna l’iperbole

castrata del suo

volo coatto e

sogna di

smussare la

serie delle

bordature che

ancora circuiscono

l’andirivieni in

cui ci si

esercita a

saggiare, di

testa, il metallo.


Enzo Campi è nato a Caserta nel 1961.  Vive e lavora a Reggio Emilia dal 1990. 
Autore e regista teatrale con le compagnie Myosotis e Metateatro dal 1982 al 1990. Videomaker indipendente, ha realizzato svariati cortometraggi e un lungometraggio: Un Amleto in più. Suoi scritti letterari e critici sono reperibili in rete su svariati siti e blog di scrittura, su riviste e antologie. Ha curato numerose prefazioni e note in volumi di poesia. Ha pubblicato Donne - (don)o e (ne)mesi (Genova, 2007), Gesti d’aria e incombenze di luce (Genova, 2008), L’inestinguibile lucore dell’ombra (Parma, 2009),  Ipotesi Corpo (Messina, 2010), Dei malnati fiori (Messina, 2011), Ligature (Sondrio, 2013), Il Verbaio (Milano – Sasso Marconi, 2014), Phénoménologie (Bologna, 2015). Principali curatele Poetarum Silva (Parma, 2010), Parabol(ich)e dell’ultimo giorno – Per Emilio Villa (Milano – Sasso Marconi, 2013), Pasolini, la diversità consapevole (Milano, 2015). Ha diretto, per Smasher Edizioni, la collana di letteratura contemporanea Ulteriora Mirari e coordinato le prime due edizioni dell’omonimo Premio Letterario. È stato ideatore e curatore del progetto di aggregazione letteraria “Letteratura Necessaria”. È direttore artistico del Festival “Bologna in Lettere”.