Lorenzo Mari su Il cervo giudicato di Ianus Pravo e Ostrakon di Alessandro Ghignoli

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Il Cervo e Ostrakon

Al di là delle valenze storiografiche più puntuali, resta piuttosto noto ed emblematico il passaggio delle Vite parallele di Plutarco nel quale Aristide contribuisce al suo stesso esilio: «Allora mentre si stavano appunto scrivendo i cocci, si racconta che un tale analfabeta veramente rustico, dando il coccio ad Aristide, come al primo incontrato, gli chiese di scrivere il nome di Aristide. Meravigliandosene questi e informandosi che cosa di male gli avesse fatto Aristide, quello avrebbe risposto: “Nulla, né lo conosco, ma sono stanco di sentirlo chiamare dappertutto il Giusto”. Udita una tale risposta, Aristide non avrebbe detto nulla, ma avrebbe scritto il nome sul coccio e glielo avrebbe restituito».

Il gesto dell’auto-ostracismo, che rafforza le qualità morali di Aristide detto il Giusto, è il primo riferimento che viene alla mente affrontando due libri preziosi pubblicati dalla collana “Nuova Limina” di Anterem nel 2022: Ostrakon, appunto, di Alessandro Ghignoli e Il cervo giudicato di Ianus Pravo. Non si tratta soltanto di sottolineare gli appigli etici, letterari e formali di una certa marginalità – Pravo era stato eletto «Re degli outsider» in un importante articolo di Sonia Caporossi apparso su Critica Impura, e questo già dieci anni fa – ma anche di andare a rintracciarne una genealogia che per entrambi gli autori si colloca con evidenza, anche biografica, nelle tradizioni poetiche sperimentali in lingua spagnola. Interrompendo, cioè, quella sorta di “anglo-francocentrismo” che sembra dominare nei riferimenti culturali e letterari del dibattito letterario e poetico italiano, i due autori presentano il portato di influenze eterodosse e lo rielaborano da par loro, senza per questo farsi completamente assorbire dal loro diverso quadro di riferimento.

Nel Cervo giudicato di Ianus Pravo, ad esempio, fa capolino il poeta spagnolo Leopoldo María Panero (1948-2014) – come osserva anche Maria Grazia Insinga nella densa, e intensa, nota finale – e lo fa in vari modi: con il titolo (che riecheggia El ciervo aplaudido di Panero, pubblicato nel 2013) con un esergo (da Himno a Satán, del 1987) e con un verso citato in lingua originale, «aun cuando el musgo es certeza» (p. 49). Per Ianus Pravo, Panero non sembra essere semplicemente sinonimo di isolamento, marginalità o maledettismo, ma – in funzione di una lunga frequentazione non solo umana ma anche poetica e traduttiva – l’autore di un sottotesto che riesce spesso a emergere con forza nel Cervo giudicato, ad esempio in quelle incursioni che vanno al di là della scorza del sentimento religioso, e che, pur muovendosi sul filo della blasfemia, restano bene all’interno dei territori del sacro (si veda, a titolo di esempio, il testo A Cristo manca il Cristo ma lo sfarsi ai corvi, p. 37 o i travestimenti della Noche oscura del alma di San Juan de la Cruz nel testo a p. 25, dove compare anche il “cervo giudicato” che dà il titolo al libro: «Non sa il labbro, scoria, il tremore di carne / che fa la notte oscura, oscura? Oscura la notte?»).

In questo, c’è di più di un semplice rinvio intertestuale all’Himno a Satán o ad altri luoghi della poesia di Panero. Andando alla radice dell’incontro con la poesia dell’autore spagnolo – come quella dei molti altri autori che Ianus Pravo cita nella sua scrittura, senza per questo mostrare quella forma di hybris che è tipica dell’enciclopedismo – la scrittura del Cervo giudicato sembra fondarsi su quella compresenza babelica di tutte le lingue che, secondo una lunga tradizione teorica, muove la pratica traduttiva (ricordata esplicitamente con una citazione shakespeariana, a p. 48: «When mercy seasons justice», da quel Mercante di Venezia che Jacques Derrida ha analizzato a più riprese, parlando di traduzione) ma che riguarda, allo stesso modo, i fondamenti della scrittura poetica. L’esito più immediato pare essere una sorta di plurilinguismo che è a tratti ribelle e sfrenato, però mai del tutto cerebrale né fine a sé stesso; anzi, è proprio tale plurilinguismo a incontrare la propria fine, nel mirabile «Dies Irae de dreit nien» che dà la stura al testo conclusivo, e dove fa capolino, quindi, Guglielmo d’Aquitania, conte di Poitiers, maestro del trobar clus e, qui, del “verso di puro niente”.

Sull’aggiramento di qualsiasi rischio di cerebralismoo, si vedano anche i versi incipitari del primo testo del libro: «Oh la clarté. / La clarté. / Oh la clarté. / Der TrĹ«bung durch Helles. / La voix de oh la larme» (p. 13), che costituiscono un apparente scoglio anche per quel fantasma culturale che è il “lettore forte”, ma che richiamano, d’altronde, La clarté del titolo – una “chiarezza” che è sempre rintracciabile nella poesia di Ianus Pravo, come scrive Insinga (p. 55), magari, a mio parere, con un piccolo sforzo ulteriore di ricerca e di approfondimento, ma senza mai celarsi dietro trappole e infingimenti intellettualistici.

Tra i pochi preziosismi del testo, comunque, c’è la rincorsa imperfettamente omofonica, in castigliano come in italiano, tra ciervo (cervo) e siervo (servo), a sigillare e legittimare una delle tematiche più possenti del volume, il rapporto tra corpo e libertà: «C’è una carne ubbidiente a sé, / la sua libertà è sé stessa. / Ma la libertà è la carne del servo» (p. 21). A questo si lega anche il rapporto della scrittura di Ianus Pravo con il Nome del padre, che viene evocato più volte in una chiave che sembra riprendere e rielaborare la tradizione psicoanalitica lacaniana: «mi è ius la notte e il suo limite, / sono il padre e nascondo il nome di mio padre» (p. 39) e soprattutto «nessuno sa, e io ancor meno, il nome che il padre ha scritto / nel mio corpo di tedio: è il nome a nodo e bianco // concimato morrà come un dio profanato / hapax…» (p. 45). Tale iscrizione corporale, come si leggerà più avanti (p. 50), trova i propri numi tutelari non tanto in Lacan, quanto in Amleto e nel Kafka di Lettera al padre; ancora una volta, però, la rete intertestuale non è in grado, di per sé, di fornire alcuna garanzia. Anzi, è proprio la scrittura poetica a riaprire l’abisso tra il polo della cultura e quello della barbarie. Poli sovrapponibili, secondo la nota riflessione benjaminiana, ma che la scrittura poetica riesce a rendere tragici nella loro frizione, come accade in chiusura del testo appena citato: «lo spazio del salario per non dire, per non / dividere lo scarnire, non aprire l’Auschwitz //che protegge in rubedo ogni Atene dell’uomo, oltre d’Atene ad Auschwitz, l’oltre del padre al figlio» (p. 50).

Come segnala l’occorrenza molteplice del “salario” nel testo, Il cervo giudicato è un testo che si occupa anche di una certa economia, libidinale e politica, esplicando tale processo nel riferimento etimologico all’oikos quale spazio di condivisione domestico che però non riesce a sottrarsi, anzi contribuisce, a quel disciplinamento di legge che norma individuo e società, appunto, in chiave eco-nomica. Anche in questo caso, la poesia di Ianus Pravo pare in grado di suggerire una certa alternativa etica e politica a questo disciplinamento e contenimento della condivisione, appuntata anche da Maria Grazia Insinga quando riscontra «da un lato il nulla che permea l’io, dall’altro la condivisione dell’ultimo noi, noi che moriamo à la clarté des cieux, dell’ultimo cielo, come nel primo testo del libro (pp. 13-17): così, nasce la poesia, tempo primo, unità minima sufficiente di comprensione, linguaggio ineffabile, ineffabile nome, legge» (p. 56). Viene attuata una rifondazione della lirica – «quando l’io e il tu non sono che un egli» (p. 24) è uno dei versi più significativi, in questo senso – che è anche rifondazione della legge: sempre seguendo Insinga, si è costantemente alla ricerca di una «pravé ianuaria (p. 33) che potrebbe essere il riflesso del nuovo nome o del nuovo cielo; del nome stesso di Ianus Pravo, nato in gennaio; il dio bifronte latino unito a un aggettivo che indica “storto, deforme” […] quel pravé – ceco? esperanto? – sembra corrispondere, però, all’avverbio “appena, giustamente, a ragione”. Un linguaggio, quello di Ianus, che riscrive la legge, ne fa cielo: una inedita prospettiva del male del mondo, o meglio, di ciò che il mondo considera male e mostrando l’osceno ha occultato l’osceno (p. 46, ma anche pp. 15, 36)» (p. 56).

Un nome che, tuttavia, fatica a ricongiungersi con il volto – con quella sua peculiare declinazione lévinasiana che, in effetti, molto ha a che fare con l’identità – tanto per la persistenza della maschera («Il volo della maschera ha strappato la faccia, / sulla maschera il sangue ne è simulacro, resti / di faccia sono maschera sulla maschera in volo // perché è il volo alto a non permanere in maschera / ridendo di pietà sulla faccia straziata», p. 44) quanto per quella «inezia del vedere» (p. 30) che è un modo per decostruire l’ocularismo oggi egemone (in attesa che arrivino nuove ibridazioni umano-artificiali dalla diversa sensorialità).

A questo proposito, l’aforistico verso incipitario di un testo di Ianus Pravo qui già richiamato – «Non c’è vedente che assomigli in empietà a un cieco» (p. 24) – funge da buon ponte verso Ostrakon di Ghignoli, libro che si apre interrogando, anche a livello grafico, la specularità delle parole, delle frasi e dei versi, ricorrendo non di rado a quella tradizione poetica delle sequenze retrograde che costituisce uno degli antecedenti più chiari della poesia visiva e concreta affermatasi negli ultimi due secoli. Nel libro di Ghignoli, è la realtà con tutte le sue immagini ad essere chiamata in causa, visto che l’introibo speculare del libro recita, appunto: «THE FOLLOWING IS BASED ON A TRUE STORY / YROTS EURT A NO DESAB SI GNIWOLLOF EHT» (p. 11). È, inoltre, una specularità adeguatamente manipolata, portando a frequenti lacune, omissis o cancellazioni; non c’è, invece, quel dinamismo trasformativo che attiene al movimento dialettico (d’altronde, come si legge nel titolo del testo a p. 13, la follia è una dialettica ordinata).

Si genera, piuttosto, un interesse filologico o pseudo-filologico – rimarcato dall’uso ricorrente di alcune segnature tipiche dell’annotazione dei testi – ma che procede, tuttavia, nella consapevolezza di uno sforzo che diventa tanto più titanico quanto più si avvicina al presente: «la custodia dell’intorno il senso iscritto nella stanza en la estancia / in movimento fino al presente descritto in una sola laus» (p. 15). Ed è la coppia stanza/estancia – quasi omofonica, ma semanticamente assai diversa (al contrario, o forse specularmente, rispetto a quanto accadeva tra ciervo e siervo, per Ianus Pravo), e che quindi rimane, di fatto, a cavallo tra le lingue – a sottolineare in modo plastico la precarietà e vulnerabilità di un tentativo altrimenti gigantesco e pantagruelico. Non è solo un problema interno al linguaggio verbale: acrofonia IV presenta già nel titolo quel gioco tra stimoli visivi e abduzione linguistica (p. 17) che si ripercuote in tutto il libro – all’interno del quale la relazione parola-immagine è fondamentale e, al tempo stesso, di volta in volta scardinata – e la cui soluzione acrofonica è già da subito denunciata come possibile, dal punto di vista tecnico, ma non decisiva, in senso assoluto.

Del resto, Ostrakon è un campionario delle innumerevoli tecniche possibili di combinazione tra testo e immagine: il risultato è quasi sempre post-ecfrastico, non di rado virato in senso operativo (come quando una nota a piè di pagina fornisce la puntualissima bibliografia di un verso mancante: «Roberto Voller, Nel cucchiaio, Salvo imprevisti, Firenze 1976, p. 45», ma chiede di mandare una mail a Ghignoli stesso per poter venire a conoscenza del contenuto della citazione, contenuta in un volume ormai introvabile, p. 21) oppure ludico. D’altra parte, questa moltiplicazione delle operazioni di manipolazione dell’iconotesto si allontana certamente dalla «teoria della teoria» (p. 38), che magari affligge altre scritture di ricerca, ma crea, al tempo stesso, l’esigenza di una conferma della ricerca individuale perseguita da Ghignoli, il quale non a caso cita la «trasmutanza» (p. 31), rinviando a un suo precedente libro dallo stesso titolo (Sigismundus, 2014), e successivamente, la «mesopotamia» (p. 38) che dà il titolo ad un’altra sua opera poetica, ancora inedita.

Salvata la coerenza e l’omogeneità del percorso autoriale, resta però molto difficile – differentemente da quanto suggerito in precedenza per Ianus Pravo – affermare, in un contesto così chiaramente anti- o a-dialettico, un’alternativa che si opponga alle logiche dominanti, per quanto manipolate. Il potere resta un problema inaggirabile e anzi, quando si manifesta come potere economico, legato al consumo, manifesta tutto il suo potenziale di sussunzione: il proclama di un uomo medievale, ad esempio, prevede un’estrema, accurata invettiva, prima della sparizione dell’io individuale («cosa c’è ora di così cambiato se prima erano volevano ma oggi come ieri sono l’oggetto di uno slogan») per poi rivelare il fatto che anche suddetto proclama è una «informazione pubblicitaria» (p. 39).

L’alternativa a questa sussunzione totale, ormai data per scontata anche da tanta teoria politica contemporanea, è quella della rinuncia alla poesia, ma di farlo come scelta ancora non completamente eterodiretta, come una sorta di “abiura” villiana, invece di ostinarsi nella rivendicazione di un potenziale oppositivo che – come accade con tutte le merci, e quindi anche quelle dal valore assai esiguo, però mai anti-economico, come i libri di poesia – può essere facilmente sussunto. A questo, più che le operazioni ludiche intorno alla retorica della poesia civile che si trovano verso la fine del libro (pp. 52-53), vale la destrutturazione del manuale prescrittivo in poetica: eserciziari: «ho scritto pure questo / mi ero ripromesso di non farlo / mi avevano consigliato di non farlo / e non farlo era la cosa giusta» (p. 19).

È una soluzione anche più convincente di quella risposta in forma di poesia a un questionario richiedente una propria poetica personale che inizia con l’imperativo «scrivi tutte le parole possibili» e finisce con la loro cancellazione: «dopo solo dopo solo davvero dopo / cancellale ancora e ancora anche dopo» (p. 25). L’esaurimento di tutte le possibilità sul tavolo resta infatti un esito sempre possibile, nelle poetiche combinatorie e plurilinguistiche di Ianus Pravo e Alessandro Ghignoli, in un processo di avvicinamento rischioso, ma a tratti inevitabile, nella sussunzione generale, al nichilismo postmoderno della parificazione orizzontale e svilente di tutte le alternative possibili. Entrambi gli autori riescono a salvarsi a un passo dal baratro – pure indicandolo, e indicando, indirettamente, quanti vi siano caduti – dicendo tutto e insieme facendo un “verso di puro niente”.

Anche l’ispanofonia, in fondo, deve pur rendere omaggio alla tradizione del trobar clus.