Silvia Comoglio, Afasia

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A Silvia

Per “Afasia” di Silvia Comoglio, postfazione di Elio Grasso, Anterem edizioni, 2021
Giorgio Bonacini, Laura Caccia, Mara Cini, Stefano Guglielmin, Maria Grazia Insinga, Ranieri Teti

 

A Silvia Comoglio 1

 

Una scena immaginativa fonda le sue basi dentro un sentire tanto inusuale quanto più pulsante di meraviglia. Tale da farsi carico, quando la poesia sostiene la persistenza del suo esserci, di ogni relazione di senso e di ogni sua direzione, che sia visiva, uditiva, evocativa o visionaria, lineare o contrastante, come “luce a eco rivoltata”, scrive Silvia Comoglio. E’ così che il titolo Afasia si connota non per incapacità espressiva, ma per i riverberi che si intrecciano tra scrittura e dire, quando la parola, fluttuando, si imprime tra i segni del reale.

 

‘Afasia’ è colma di voce: in dialogo e in partitura. In un molteplice e incantato musicarne il silenzio e il sonoro, le pause e il flusso interminabile, dentro, e fuori, la pagina. Nel suo vocare aperto. Rivolto all’alterità, alle voci che tessono il rovescio dello spartito. Come nel suo intenso invocare. Pregno di interrogazioni, in una relazione diretta con l’enigma, sollecitato e amato in quanto tale. E ancora nel suo evocare meravigliato. Denso di immagini che svelano universi insieme onirici e reali, fiabeschi e familiari, terreni e metafisici. Nell’amore di una ‘chiaroveggenza’ che fa i conti con impotenze e illusioni, ma disponibile a schiudersi “a primo soffio, tenuto in fede di parola”. Una voce, quella di Silvia, insieme prossima e tesa all’oltranza. Colma di mondo e di ‘antimondo’. Amante del dettaglio e dell’intero. Danzante a ritroso e all’infinito. Una voce da cui farsi coinvolgere e trascinare, seguendo la ‘luminescenza’ che musica.

A Silvia Comoglio 2 - 3

Un giorno ho incontrato per caso Silvia Comoglio all’angolo di una delle vie principali della mia città. Silvia Comoglio abita a 350 chilometri da qui, io vado molto raramente nella mia città ma, per caso, ci siamo incontrate. Adesso la incontro in questo suo Afasia. Nelle pagine trovo spicchi di parole specchiati in conche e gusci. Nelle fessure soffi, suoni e altro. Impronte di respiri, spillati. Lucore di vite minime cucite all’orecchio, all’occhio. Ancora echi. Dove passaggi, dove dettagli liquidati, dove germogli e rincorse. Dove incontri non per caso.

 

Afasia inaugura il suo viaggio nell’acquoreo della lingua, tra sentire e significare, chiedendo attenzione ai riflessi morgani che in quell’andare cantano o disturbano, a seconda che il senso appaia o confonda. Comoglio tende al massimo la possibilità del dire, lo torce seguendo grammatiche remote o di là da venire, piega logica e semantica all’immaginazione, dando forma all’enigma, natura magica della poesia originaria. La poesia è sfinge, ci dice, che però non pone domande né inganna il mondo, ma ci apre al mistero del qui e ora, del reale già sempre in balia dell’apparenza, e viceversa. La parola poetica, ci dice ancora, si ferma prima della cristallizzazione significante, è il seme del controcanto, l’a privativa che addita una via differente alla parola del potere, all’atto del dire che domina. In questa sua voluta assenza di mimesis dell’ordine e delle gerarchie, la parola di Silvia svela la propria natura anarchica e ci invita all’esercizio dell’abbandono dei nostri sensi alle innumerevoli sfumature fonetiche e ritmiche della lingua; una lingua piena, multiforme, non ancora ridotta a veicolo utilitaristico.

A Silvia Comoglio 4

Silvia Comoglio, sin dall’esergo di Borges, porge al lettore chiave ed enigma della sua poetica. Hanslick, citato dal poeta argentino, nel “Bello musicale” parla di un bello specificamente musicale per il quale possiamo affermare che così come la musica, anche la poesia non significa altro che sé stessa. Ecco che le hanslickiane forme sonore in movimento di “Afasia” appaiono nel loro drastico significato di struttura e nomenclatura imprescindibile alla visione; ecco il cubicolo della lingua che richiama la guarigione del lebbroso nel Cubicolo di David; ecco il divieto di dire la guarigione e al tempo stesso il dire come trasgressione del divieto. Forme che traggono forza da parole recise da un trattino inaspettato, da parentesi che isolano e potenziano le avversative, da accenti di parola che non era necessario segnare sulla carta se ciò non fosse, invece, profondamente necessario all’oralità di una scrittura che fa del puro suono l’architettura di un significato puro: quello della poesia, arte afasica capace di accedere alla realtà inconoscibile nel tempo di parola che non dicendo, dice, come il pesce d’oro di Afanes’ev, qui, nello stagno gridato a fior di loto.

 

Questo libro, innervato da una costante e forte maturità espressiva, è una partitura per voce sola, voce narrante, dialoghi, suoni cristallini. Come “luce a eco rivoltata” le parole si trasformano in una grande, inedita sinestesia, resa ancora più percepibile dal variare di corpi e spazi testuali, come fossero toni differenti della voce e pause, brevi prese di respiro. Con la precisione dell’orafo, Silvia costruisce una filigrana verbale ricca di intensità, ricostruisce un mondo vero e finalmente reale, senza le tante maschere delle apparenze. E pagina dopo pagina, l’apeiron, l’indefinito, da un “cubicolo di lingua” prende forma e sostanza. Afasia, antimondo, chiaroveggenza, luminescenza, sono i punti nodali di quest’opera. Passaggi che ci portano dove non eravamo mai stati.