Maria Grazia Insinga per Ianus Pravo

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 Copertina del libro - Il cervo giudicato 

 "Questa postfazione è in realtà un saggio: un'ottima prova"
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Postfazione

Basse frequenze per uno scacco al verbo: voce del verbo del silenzio protratto

di Maria Grazia Insinga

“Il cervo giudicato” è una caravaggesca opera al nero che tende a qual- cosa di incorruttibile, alla morte dell’io e del nome del padre e consuma la parola a nigredo del tempo (p. 50), dove “nigredo” non è che il primo passo – putrefazione e decomposizione – verso la creazione del ventre d’oro. A risanare la corruzione dell’io, troviamo una scrittura caratteriz- zata da crudo realismo, suoni aspri e, soprattutto, da un asse ideale che predilige la variazione diafasica come canale primo di comunicazione. Ne risulta un palinsesto di registri, di codici e sottocodici che arricchiscono le varianti situazionali del poema. Il lettore modello di questa scrittura

onnicomprensiva e onnipotente, comprensiva pure dell’antimondo e, quindi, anche del niente, della fragilità, dell’essere e del non-essere – è il lettore non-modello, è qualsiasi lettore purché disposto al mostruoso e alla meraviglia, allo stupore e allo stupro, disposto alla visione di una Vergine vertigine, argine allusivo e matrice dell’inferno. Le lingue spe- ciali di scarsa comprensibilità contaminano una materia comune e bassa per la formazione di significati altissimi, ma accessibili a tutti. L’Autore rende accessibile finanche il personale modo della coscienza di perce- pire qualcosa per via diretta, attraverso un novissimo trobar clus capace di compitare la luce a vantaggio del lettore: Luce e scandire ultimo del / ritmo del bianco, / lo scandire / del bianco / il pausarius nella luce (p. 40). Si immagini Ianus Pravo, dunque, come un pausarius che con una mazza sorveglia i rematori e batte il tempo ad alta voce per scandire il ritmo di immersione dei remi nell’acqua e accostarsi alla luce, al potere del korbàn (p. 40), l’antico sacrificio ebraico.

Come il poeta provenzale Arnaut Daniel, Pravo è il maestro del trobar clus; come Guglielmo d’Aquitania, è il trovatore bifronte. Nell’ultimo componimento (p. 54), il poeta ripete un verso del conte di Poitiers: de dreit nien. Il sintagma in antico occitano non ha rimandi filosofici o me- tafisici e sta a indicare la locuzione “un bel niente”: Farai un vers de dreit nien (Scriverò un verso di puro niente). De dreit nien è, qui, la negazione sia di orrore sia di bellezza: e apre nel primo verso con Dies Irae de dreit nien; e chiude nell’ultimo con Ira Rosae, de dreit nien. E le parole iniziali della sequenza liturgica di Jacopone da Todi, Stabat Mater, col tema giovanneo della Madre dolorosa, danno la chiave di quel nulla, forse, nella condivi- sione: offrir la mano / del nome / (la dimora del nome è una mano). Da un lato il nulla che permea l’io, dall’altro la condivisione dell’ultimo noi, noi che moriamo à la clarté des cieux, dell’ultimo cielo, come nel primo testo del libro (pp. 13-17): così, nasce la poesia, tempo primo, unità minima sufficiente di comprensione, linguaggio ineffabile, ineffabile nome, legge. E la legge di Pravo sopravanza la nostra e la rifonda: Sopra di me il cielo stellato, dentro me / cielo stellato e sangue fanno argento e legge // nessuno sa, e io ancor meno, il nome che il padre ha scritto / nel mio corpo di tedio (p. 45). Il pensiero kantiano subisce un rovesciamento di senso: nessuna leg- ge è dentro quest’uomo, un uomo-tutto-cielo dove nessun padre ha scritto nessun nome. Qualche tempo fa, Ianus disse: «E se qualcuno pronuncia il mio nome, non è cosa che mi riguardi». Una rivelazione percorre l’opera del poeta che si è dato, quindi, un nome con le sue mani, un nome con- cepito da un melvilliano matrimonio d’acqua e meditazione: pravé ianuaria (p. 33) che potrebbe essere il riflesso della nuova legge o del nuovo cielo; del nome stesso di Ianus Pravo, nato in gennaio; il dio bifronte latino unito a un aggettivo che indica “storto, deforme”, rictus (pp. 34, 38, 47) in opposizione a “retto” e, di conseguenza, “malvagio, perverso”. Quel “pravé” – Ceco? Esperanto? – sembra corrispondere, però, all’avverbio “appena, giustamente, a ragione”. Un linguaggio, quello di Ianus, che ri- scrive la legge, ne fa cielo: una inedita prospettiva del male del mondo, o meglio, di ciò che il mondo considera male e mostrando l’osceno ha occul- tato l’osceno (p. 46, ma anche pp. 15, 36). C’è il XXXIV canto dell’Inferno e c’è Mandel’štam – il poeta bifronte dell’ode d’ardesia – con la parola- incarnazione in questo percorso, senza dubbio, angelico; c’è la moderna superstizione del salario contro la mietitura giovannea (Giovanni 4,36) e la trasmutazione per cui il male non è che la bellezza luciferina ferita e da quella fenditura entra (– p. 51: pane-pundra e vetro, e fenditura; p. 13: Der Trübung durch Helles tratto da “Zürich, Zum Storchen” per Nelly Sachs, di Paul Celan dove, appunto, il torbido viene dal chiaro). E la ferita è sempre corpo che si apre a una lingua, a una genesi. La genesi del libro è proprio una ferita luminosa nel cielo: il poemetto “La clarté” (p. 13). Lo stesso Pravo chiarisce al riguardo nella rivista “NiedernGasse”:

«[…] Sette anni prima avevo conosciuto Avghí, che in greco vuol dire “alba”. Ero a bordo del Kámiros, in viaggio da Rodi al Pireo. Vestivo la maglia gialla e nera dell’Aek, la squadra degli esiliati di Smirne. Era la squadra di Avghí. Passai indenne attraverso la sua malattia, Avghí morì di AIDS. E io non c’ero. Non so quale corrente segreta mise in contatto il mio ricordo di Avghí con la lettura di una bellissima pagina di Denis Diderot, nella sua Lettera sui sordomuti, in cui il filosofo francese parla dei versi 645-647 del Canto XVII dell’Iliade. Diderot polemizza con le traduzioni di Longino, Boileau e La Motte delle parole di Aiace: “Gran Dio, caccia la notte che ci copre gli occhi,

/ e lotta contro di noi alla luce dei cieli” (Boileau), “Gran Dio, ridacci la luce e lotta contro di noi” (La Motte). Per Diderot era un errore mettere in bocca ad Aiace parole di sfida a Zeus: nei versi dell’Iliade solo c’è un eroe disposto a morire, se è la volontà di Zeus, a cui Aiace implora null’altro che la grazia di morire combattendo. “Grand Dieu, chassez la nuit qui nous couvre les yeux, / Et que nous périssions à la clarté des cieux”, traduce Diderot: O padre Zeus, alza la notte dai nostri occhi, e che possiamo morire alla luce del cielo.

La notte mi ha sempre passato un salario, con cui ho pagato il prezzo dell’al- ba. Quaesivit caelo lucem, ingemuitque reperta (Virgilio, Eneide, IV, v. 692). Cercò nel cielo la luce e gemette per averla incontrata. Quando Aiace si darà la morte, un fiore rosso sorgerà dalla terra, e nei suoi petali porterà scritta la sillaba Ai, le iniziali del suo nome, un nome ridotto a un gemito (Pausania I, 35, 4)».

La percezione del corpo di Aiace è nell’Autore dispercezione e disappari- zione del corpo. Il poeta non immagina il corpo, lo disimmagina, poiché il corpo immaginato non è il corpo. Ciò che la poesia di Pravo nomina non è ciò che la poesia prima di Pravo nominava. L’uomo è un’immagine, la parola lo è, ma la parola del poeta è smisurata a tal punto che egli stes- so arranca come in un luogo senza misura e sconosciuto a sé stesso dove le cose fino ad allora nominate, fino ad allora immaginate si scoprono falsi miti di sé e si dispongono al silenzio. Ed è qui, nel verbo del silenzio protratto (p. 33), che può nascere davvero la parola, lo scacco al verbo. Il linguaggio di Ianus non è una questione puramente linguistica, così come dovrebbe essere il linguaggio; è privo di artifici, nudo e, quindi, blasfemo. Mentre Dio si dà alle sue creature come Parola fondatrice di relazione, Pravo, si dà al lettore nell’ossimoro della separatezza dai commerci del mondo. Un intero, che fonda la sua integrità nella separatezza, è quanto di più lacerante il poeta possa sperimentare. A precedere la Creazione, è l’atto di separare: la carne dalla carne – le ferite non risplendono (p. 14) è tratto dal Prologo del “Don Chisciotte”, «Se non risplendono le mie ferite agli occhi di chi le osserva, acquistano però pregio dalla cognizione che ognuno ha della loro origine»; le acque dalle acque (Genesi 1,6) – divide et coagula per l’alchimia; l’aria dall’aria – il volo che nel cielo separa / in due gole l’azzurro (p. 32). Che il due, / un numero, / sia uno, specchio / a uno specchio (p. 19), scrive Pravo; e Panero risponderebbe che essere due è tutto (“Dioscuros”, 1982). È qui la nigredo alchemica la cui immagine è il Calvario e richiama il verso Je suis ta viande nue oh (p. 13). Il riferimento è probabilmente all’opera di Don Antonio di Guevara, La tua carne nuda nel Calvario (1545) che espone le sette parole di Cristo scorporato sulla Croce; oppure, incorporato nell’Alleanza, al Secondo libro di Samuele (5,1): Vennero allora tutte le tribù d’Israele da Davide in Ebron e gli dissero:

«Ecco noi ci consideriamo come tue ossa e tua carne». Un intero minato continuamente dalla censura religiosa, politica, dei costumi, della corru- zione nemica della parola autentica; e dalla cesura tra il poeta e il mondo. Un intero in cui la separatezza si dà per nudità e la nudità per separatezza. Si può essere nudi solo lontani dal mondo; qualsiasi contiguità col mondo è un’infezione per il linguaggio, impurità, impossibilità di poesia. Ianus vive la lacerazione, accetta la separatezza, ma chiede la misericordia dei cieli ultimi e della loro ultima luce: quaesivit caelo certum (p. 39). Solo così, la vita compirà il suo mandato, prendersi cura della morte, propria e di coloro che amiamo et que nous périssions / à la clarté (p. 33). Accettare la separatezza non esclude l’attaccamento istintivo alla luce, anche se la ferita luminosa è pur sempre una ferita. Da un lato, Dio e la purezza del non essere e, dunque, l’impossibilità dell’intero; dallo stesso lato, l’uomo che nel suo conato supremo abbandona i cadaveri al monatto (forse dal greco, μĎŚνος, unico, solo, formato da uno solo) unica interezza possibile, fogna, azzurro mortifero: il Dio slabbra sulla schiava ogni purezza / del non essere, la materia / della sua immagine // homo conatus abbandona il cadavere / ai monatti o alla fogna, all’azzurro dell’addio (p. 19). Diventare uno è stupore, stupro.

Ianus è il sopravvissuto condannato a ripetere “E io non c’ero” nel mo- mento in cui l’alba termina, nel momento in cui Avghí muore. Non potersi prendere cura della morte dell’altro, ci rende sopravvissuti alla ricerca di un’ultima alba, di un ultimo cielo di luce, di un ultimo “rehem/utero” che poi non è altro che “rachamim/misericordia”. Un bambino senza occhi – Non c’è vedente che assomigli in empietà a un cieco (p. 24) – che ripensa la percezione e il pensiero mentre procede a tentoni e ha bisogno di toccare con le mani la realtà per percepirla. Solo la luminosità di una ferita può consegnare agli occhi ancora la visione, la veggenza. Ma le ferite non ri- splendono (p. 14), dice con Miguel de Cervantes. Qui nasce la visione del lettore che ha visione di qualcosa di cui ha nostalgia e, al tempo stesso, non ha mai conosciuto e conosce solo grazie alla poesia. Scrive Pravo: chi è cieco, aide¯s, è un io che muore / assente come ciò che non muore (p.

32) dove aide¯s è Ade, il dio dei morti e, al tempo stesso, αιδης, non visto, invisibile. A Cahuachi (Perù) – il cui nome significa “luogo dove vivono i vedenti” – la civiltà Nazca (I-VI secolo) realizzerà le ceramiche citate qualche verso prima, una ceramica nazca / una donna che dà alla luce una testa mozzata che fa pensare alla fossa della “grande offerta” ma anche al “luogo del teschio” per eccellenza, il Golgota.

Dimentico di sé, deprivato del racconto fondante dell’essere, deprivato, cioè, del suo io, senz’arma che dia carne all’imperium (p. 27) – che è anche il titolo di un libro del 2011 scritto da Panero e Pravo – il poeta ritrova la sua dis-umanità, una divinità che toglie carne all’imperium. Nella fine dei tempi, così facendo, Ianus edifica un poema tra eternità e tempo, e sancisce: da un lato, l’insufficienza dell’eternità poiché nulla di sovran- naturale è nell’assoluto; dall’altro, l’abolizione del tempo stesso per la via di una visione, anzi di una previsione che è in nuce al valore mistico e carnale di questa poetica impossibile, generata dopo lungo digiuno per togliere carne all’io, appunto. L’effetto contemplativo è raggiunto tramite il soggiacere della sensibilità per così dire “uditiva” alle basse frequenze come quelle di cui si avvale, ad esempio, il pachiderma che, grazie agli infrasuoni, sente i compagni prima di vederli. Si tratta di una percezione fisica delle vibrazioni che è quasi una preveggenza. Un rumore rosso che è simile a un tuono, a una passeggiata aleatoria tra le parole sotto una ca- scata di suoni, un’esile pioggia battente: Perla rubata all’ano di Yehoudit, la schiava, / senz’arma che dia carne all’imperium, / un’accentuazione delle basse frequenze / il dolore esile della pioggia che è fitta, / un rumore rosso (p. 27). Il campo di udibilità di questa scrittura non pare assoggettato al meccanismo di selezione culturale: Ianus ode ancora l’avvicinarsi della preda, il fremito delle fronde, il respiro dell’altro. Il timbro della voce umana e il prisma deformante del linguaggio sono la risultante estrema- mente originale di ciò che il poeta ha udito: una voce, quindi, inumana. Il pensiero pravo-shakespeariano – Amleto sul corallo del padre (p. 50)

è assoluto, origina, dunque, dal puro niente come la voce di Ariel e coagula sul corallo del padre nella “Tempesta”: «Tuo padre è là, nel fondo del mare, / sono già perle quelli che furono i suoi occhi / e le sue labbra ormai fatte corallo. / Niente di lui è destinato a svanire / ma a subire un mutamento dal mare / in qualche cosa di nuovo e strano». La trasmutazione alchemica è compiuta al massimo grado della tempesta o dal punto più elevato del castello di Elsinore, per fare risuonare il mondo ai confini del mondo e della servitù del dire e, aperti gli occhi vasti (p. 18), far risuonare ancora il mondo al minimo grado di frequenza.

Il lettore sprofonderà verso l’alto, anzi l’altissimo, della parola rissosa di Pravo, di un linguaggio che rappresenta l’intero, un tutto, una babele e, dunque, una balbuzie, la balbuzie di spazio in un flusso di tempo (p. 41): un coacervo di citazioni quasi mai esplicitate – ciceroniano il verso Pro aris et focis le dita ardenti (p. 13); quadaus en son us (p. 45) è tratto da “Alto e basso tra le prime foglie” di Arnaut Daniel che canta, nel suo trobar clus, ciascuno secondo la sua specie; nel tempestoso Egeo in grembo a Teti (p. 16) descrive la nascita della dea la Vénus des Médicis et la Vénus des médecins ed è tratto dalle “Stanze cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Piero de’ Medici” del Poliziano; un albero senza radici, Sozan Kyonin, foglie d’acqua foglie / gialle, / più in là l’azzurro, non una sola macchia nella luce, Tsugen (p. 13) è tratto da “Un albero senza radici (poesia sulla morte)” del maestro zen Sozan–Kyonin; Ah caminante, ah confusión de párpados (p. 13) è tratto dal “Libro del frío” del poeta spagnolo Antonio Gamoneda; Dich nur / neigt zu mir hin, / was du geworfen (p. 14) è tratto da “Das Schwere” di Paul Celan; womb / in english is a rhyme to tomb (p.

14) è tratto da “The double man” di W. H. Auden, dove grembo è luogo di sepoltura, espropriazione umana e disincarnazione; when mercy sea- sons justice (pp. 25, 48) è tratto dal “Mercante di Venezia” di Shakespeare; Non sa il labbro, scoria, il tremore di carne /che fa la notte oscura, oscura? Oscura la notte? (p. 25) da Juan de la Cruz –; una megalopoli, un siste- ma-mondo dove troviamo città, quartieri, ponti in un flusso babelico di nomi – Srebrenica, Rodi, Pireo, Monastiráki, Praga, Zizkov, Sabra, Sha- tila, Londra, Mostar, Auschwitz, Micene, Elsinore… – eppure, Non alba né città dove io vado (p. 50) che riecheggia le parole di Simone Weil in “Venezia salva” –; un flusso di linguaggi che di lingua in lingua, di ventre in ventre attraversano il libro – sanscrito, latino, greco, inglese, francese, spagnolo, tedesco… e sul ventre immacolato, l’azzurro mortifero del lin- guaggio è seme –; un maniluvio di riferimenti biblici per cui il massimo grado di blasfemia coincide col massimo grado di sacralità – (p. 49) ogni famiglia ha un libro che è meglio non leggere / ad alta voce, sentenzia Pravo partendo dagli inventari dell’origine di un Dio che indica ad Abramo la Moriah per il sacrificio di Isacco (Genesi 22, 1-18); Il fumo per il Dio dalle aperte nari (p. 13) si riferisce al Dio longanime, lento all’ira o, come legge Gilbertus Genebrardus, Longus naribus che trattiene per lungo tempo il fiato e aspetta, differisce di molto il castigo poiché molto misericordioso (in Placido Padiglia, “David penitente; lezzioni sopra il cinquantesimo salmo di David”, Zannetti, 1610); solus non / sum (p. 25) tratto dal Van- gelo (Giovanni 8, 16); il tremore del verbo in diversi punti del libro (pp. 25, 26, 38, 40 e 46) è, forse, lo stesso tremore di San Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi –; fino a giungere ai versi (alcuni già presi in esame) che testimoniano il forte legame di Ianus Pravo con Leopoldo María Panero, non un dialogo, ma un intero – il titolo “Il cervo giudicato” riprende quello di un libro di Panero del 2013, “Il cervo applaudito”; e poi, l’esergo tratto da Himno a Satán; e anche, aun cuando el musgo es certeza (p. 49) verso di Panero tratto dalla poesia “A Claudio Rodríguez”.

Siamo di fronte a un’opera in cui il doppio scappamento fa cilecca per assenza di gravità: lo smorzatore non ricade sulla corda, i feltri si gon- fiano, i martelletti non riescono a “scappare” dalle corde e la vibrazione non si blocca e impone l’ascolto di ogni singola parola, del suo risuona- re, poiché lo strumento non è pronto a una ulteriore percussione, pena un palinsesto troppo doloroso di significanti. Il piede destro sul mare, il sinistro sulla terra e per l’angelo Ianus non vi sarà più altro tempo che la poesia. Il dolore che perde di sé memoria è il dolore che fa più male. La rimozione è il modo migliore per rivivere il male all’infinito. A meno che, alchemicamente, e due volte in questo libro (pp. 27, 46), in stercore invenitur aurum nostrum, il ventre orinato risolva nel mostrare, invece che nel negare e rinnegare, tutto il dolore di una dualità, di un rispecchia- mento impossibile in una umanità narcisa. Il rispecchiamento non è in fondo il tentativo di conservare tale e quale il mondo? non è, in fondo, il fallimento nella mutua comprensibilità, e l’impossibilità di alcuna opera conoscitiva svolta dalla poesia, dall’arte, dal linguaggio. Il poeta non mira all’autoconservazione, non cerca alcun applauso, non dice con il labbro azzurro di Hegel (p. 18) “Mi auguro che la mia esposizione vi abbia sod- disfatto”, né, come Prospero, dichiara or else my project fails, / Which was to please; ma è pur sempre un essere umano e chiede, problematizzando il rituale del riconoscimento – in lotta contro sé stesso, contro l’io, contro il narcisismo, contro l’essere – una lingua sufficientemente comune, una minima comune possibilità di luce, di unità, di comprensione, un cielo condiviso. Nel rifiuto immondo, in fondo, come scrive Giuseppe Vallardi nel “Trionfo e Danza della Morte dipinta a Clusone” (1859) «Quando i vermi avevano terminato il loro ufficio, usavansi raccogliere dalle sepolture gli avanzi dei corpi disfatti, e sovrapporre con simmetrico studio i cranii e le ossa nelle cappelle vicine alle chiese ed ai cimiterj, affinché fosser soggetto di meditazione ai viventi». I vermi (vedi p. 20) terminano il loro ufficio, ma al contempo rappresentano ciò che è ancora vitale e, dunque, il trionfo sulla morte. Questo vitalismo macabro fa sì che la memoria del dolore non provochi più il male: in stercore invenitur.

È significativa la ricorrenza della parola “ventre”, nominata ben quindi- ci volte, porta e chiave di questo poema vitale e cellula germinale della parola. Il frutto dell’aquila è maturato sul ventre, / bianco come la ferita e il tempo / azzurro come la mano / la mano azzurra che conduce al sonno / all’inverno ardente che riunisce le perfezioni del calice e / della latrina (p. 16). L’animale selvatico è portatore di un messaggio iniziatico scritto sul ventre bianco dalla mano azzurra che conduce al sonno primo nell’iden- tità perfetta di calice e latrina, alto e basso: e l’alto, con la sua perfezione, somiglia alla morte; e il basso, con il suo sterco, somiglia alla vita. La poesia, in questa perfetta identità, è il ventre, la rinascita, è annegare nel- la propria sorgente, il regno della madre. Una bellica variazione, quella sul tema dell’orina (pp. 13, 19, 23, 28, 33, 45, 53) che riporta ad Amelia Rosselli: la mia fresca urina spargo / tuoi piedi e il sole danza! danza! dan- za! – fuori / la finestra mai vorrà / chiudersi per chi non ha il ventre piatto. Versi, quelli di Pravo, che possono essere intesi come un laisser pisser, uno sprezzo sublime per chi disprezza la carne. In fondo, l’imperatore Vespasiano tassò il liquido perché ritenuto prezioso. Qui, il poeta, per

esempio, lo pone accanto alle lacrime: Sono un vecchio che lacrima / orina sulle mani per scaldarle (p. 13). Facile intravedere tra i versi il Cupido di Lorenzo Lotto o teorie di fanciulli urinanti come in un baccanale di putti michelangioleschi. Ianus è il poeta innocente come un puer minge¯ns e sovversivo come un Manneken-Pis. Innocenza o scandalo, sono punti di vista: un fatto privato è reso scandaloso nell’atto di porgerlo in versi al lettore? Partendo dal presupposto che ogni parola in più sul cervo si tra- durrà in una parola poetica in meno, partendo dal presupposto che non riusciremo a catturarlo perché il cervo è inafferrabile, ingiudicabile la sua bellezza, sulla pagina c’è un buco, direbbe Leopoldo María Panero, da dove la realtà cade / come acqua morta (“Himno a Satán”) e il lettore aiutato dalla luz del cigarro, comunque, ci cade dentro.