Giuseppe Martella per Federico Federici

Federico Federici, Misura del sonno, Anterem, 2021

Questo testo di Federici costituisce per il lettore sia un banco di prova arduo che un’occasione unica per riflettere sul concetto di esperimento all’incrocio di scienza e arte. Personalmente ho sempre nutrito delle riserve sulla nozione di poesia sperimentale anzitutto perché credo che le condizioni di laboratorio dell’esperimento scientifico non siano affatto riproducibili nell’atto della scrittura, e poi perché credo che in poesia si tratti piuttosto di esperienze di vita, che solo in un secondo tempo vanno trascritte o registrate in un media qualsiasi. Insomma, a mio avviso, la sperimentazione va fatta a monte della messa in opera, in “quell’immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi” (Rimbaud) che consente al poeta di farsi veggente e gettare uno sguardo nuovo sulle cose, cogliendone così l’“anima universale”, il disegno nel dettaglio, l’universo in guscio di noce.

E’ nota la dimestichezza di Federici con la fisica che, a suo stesso dire, gli offre la cornice teorica della propria sperimentazione artistica.1 Ma a me pare ancora più interessante l’ascolto della natura, per esempio delle vibrazioni suscitate dal vento o dalla pioggia sulla scorza degli alberi morti, che l’autore ha praticato nel corso degli anni, con l’ausilio di semplici attrezzature tecniche, sì da far scaturire effettivamente dall’esperimento scientifico un’esperienza fenomenica liminale. Le registrazioni di questi esperimenti all’aria aperta costituiscono poi la memoria prostetica e il materiale grezzo su cui l’artista opera nel suo laboratorio di scrittura o dipintura verbale, magari giovandosi una vecchia Olivetti Studio 46, insieme a inchiostro, penna, gomma e matita, per produrre le sue tavole verbovisive che, nel caso del presente testo, vanno rubricate semmai come scritture desemantizzate piuttosto che asemiche, secondo una distinzione da lui stesso sottoscritta in un’illuminate intervista.2

Infatti è la sovrapposizione dei caratteri tipografici e chirografici, dei disegni geometrici e ornati, delle gradazioni e delle sfumature dell’inchiostro a creare quelle tavole verbovisive che, a mio avviso, vanno considerate come delle vere e proprie matrici della composizione di cui qui si tratta. E non tanto nel senso astratto delle matrici della fisica quantistica (che, per il lettore comune che non sia in grado di comprenderne le equazioni matematiche, possono costituire al meglio una vaga e generica analogia) quanto piuttosto in quello concreto e materico delle schede madri di un computer che ne custodiscono la memoria di sistema, ossia “il varco di Tiresia” (12-13), la preveggenza operativa della macchina.

Risulta interessante perciò qui il rapporto fra low e high tech, perché l’autore simula con notevole precisione e sottigliezza, con penna e macchina da scrivere, la tecnologia digitale nella sua caratteristica sinergia di hardware e software. Il “varco di Tiresia” si può dunque anche intendere come il passaggio epocale dalla civiltà della stampa a quella digitale, nonché dal regime della rappresentazione a quello della simulazione del Reale. Questa tavola è pertanto quella su cui si impernia l’intera composizione del testo, che può essere recepito come una vera e propria installazione di videoarte interattiva, ponendo anche così il problema del passaggio dalla bidimensionalità della pagina scritta alla tridimensionalità dell’esperienza immersiva della così detta realtà aumentata. Perciò si potrebbe parlare anche di iperrealismo come dimensione ennesima di quest’opera, in linea con l’intento espresso dal suo titolo Misura del sonno, cioè dell’incommensurabile, un’impresa in via di principio votata allo scacco ma non per questo meno capace di illuminare reconditi aspetti dello stato di veglia. Non per nulla la tavola finale viene poi intitolata “al risveglio”, mentre la griglia di quella immediatamente precedente recita “because of these words whose son you are” (“a causa di queste parole di cui sei figlio”) (52), con un rinvio esplicito al varco di Tiresia dell’inizio, che pertanto costituisce la cesura spazio/temporale dell’intera opera, ossia la crepa madre da cui ne scaturisce la poesia.

Poiché a tal proposito preferisco parlare di “poesia”, intesa etimologicamente nel senso di composizione e manipolazione artigianale (poiein), piuttosto che di “scrittura”, che considero un termine troppo generico, sebbene oggi di moda, per esprimere qualsiasi espressione verbale con intento artistico. E anche perché il concetto di poesia amplia la portata di queste mie osservazioni a coprire sia la tradizione lirica che quella sperimentale. Di funzione poetica o autoreferenziale (Jakobson), se non di poesia tout court, mi pare infatti si tratti sempre, ogni qual volta (almeno da Mallarmé ad Apollinaire, ai giorni nostri) si appresti una partizione iconico musicale della pagina che trascende l’intreccio proposizionale del discorso in prosa a fini meramente comunicativi. Intendo dire che la funzione poetica può innescarsi anche là dove il principio del verso risulti del tutto assente, che non è comunque il nostro caso, perché qui è proprio l’alternanza di versificazione tradizionale e di tavole verbovisive, insieme alla diglossia intrinseca del testo3, a costituire il proprium dell’opera. Con un’interessante inversione del rapporto fra versi e dipinture, in quanto, mi pare, sono i primi a fungere da glosse a margine delle seconde, sottolineando così anche nel contempo lo statuto della scrittura come parergon dell’opera, supplemento e traccia di un irrecuperabile flatus vocis, respiro e spirito della parola creatrice in grado di dare appunto una misura alla magmatica sinestesia di un lacerto di vissuto, inteso come sineddoche cangiante sia dell’esperienza del mondo che dell’universo di discorso che lo esprime. Così come risulta chiaramente nella tavola intitolata “CANTO DI BALENA ADDORMENTATA” (38-39) che costituisce, per quanto possibile, una sorta di correlativo oggettivo della “misura del sonno”, nonché una sineddoche del mare come habitat della vita primordiale, nel gioco marcato di chiaroscuri, segni e disegni, dattiloscritti e scritture amanuensi, ai limiti del visibile e dell’udibile, in uno stato indistinto fra sonno e veglia, vita e morte. In quella natura integralmente anfibia e liminare, insomma, che caratterizza anche l’ineffabile misura del sonno: “la balena/ intera/ una parte del mare/ astratta – astratta/ la sua scia di schiuma si allunga attraverso i mari/ per un po’/ aspetta/ nel frattempo è addormentata/ morta/ nella sua porzione d’acqua ferma/ respira/ polmonipienidiacqua/ una balena – un’ombra di/ alghe sul fondo del mare/ (una balena non riesce a dormire/ una balena non riesce a morire)” (38) Questa tavola riassume perciò quegli “affioramenti ai margini del sonno” (56) di cui l’autore ci riferisce infine in nota.

Se consideriamo anche la densa nuvola d’inchiostro (42-43), contornata di ghirigori e paraffi scritturali pressoché illeggibili, che si può considerare a mio avviso come una macchia di Rorschach su cui ciascun fruitore può esercitare il proprio test proiettivo, allora si comprende che ci troviamo davanti a un percorso interattivo surplace, cioè proprio a una installazione immersiva simulata nello spazio bidimensionale del testo, dove peraltro le variazioni di scala, di frequenza, di intensità e di timbro rappresentano il procedimento poetico di fondo, realizzando quella fusione di esperienza ed esperimento, di cui ho accennato all’inizio, che ne costituisce probabilmente il tratto saliente.


1 Si veda l’istruttiva intervista concessa da Federici a Marco Giovenale su Antinomie, 30.9.21.
2 Ivi.
3 Su questo aspetto fondamentale non mi soffermo in questa sede, rinviando il lettore all’esauriente trattamento che ne fa Antonio Devicienti su vialepsius.wordpress.com/2022/02/03.