Stefano Baratta: Grammatiche del pensiero tra poesia e psicoanalisi

Cominciamo…, cominciamo come sempre da una fine. Sì! Perché ogni inizio è sempre una fine. Prendiamo ad esempio la situazione in cui ci troviamo adesso: voi siete lì e vi aspettate che io vi parli dei rapporti, convergenze e divergenze, che intercorrono tra poesia e psicoanalisi, presupponendo che voi di poesia ne sappiate molto più di me e che io di psicanalisi ne sappia un po’ più di voi. Però, per fare questo, io devo compiere un assassinio, uccidere altre cose che mi vengono alla mente, altri pensieri, eliminare alcune percezioni: questa luce, i colori, il caldo e altre mille sensazioni che arrivano dalla stanza, da voi, sopprimere ricordi di fatti passati, di altre occasioni in cui ho parlato di quest’argomento o di argomenti simili e…, soprattutto, il vero rischio è di uccidere con la parola i processi simbolici in atto dentro di noi e tra di noi. La colpa di quest’assassinio è dunque della parola, della parola il cui tempo è il tempo catodico, della televisione, delle città mercato, il tempo che in un attimo fa fuori tutto, il tempo che non da tempo, diverso sarebbe crono, il tempo del mito, della ripetizione, dell’esperienza, ma la parola normalmente usata non ha tempo per crono, appartenendo di fatto totalmente a catodo. La scommessa della psicoanalisi e della poesia e forse anche di qualche altra arte che usa la parola come suo linguaggio è proprio questa: esiste una parola che non uccida, esiste una parola che apra e non chiuda, che amplifichi e non classifichi, una parola simbolica? Non voglio qui entrare nell’annosa polemica tra segno e simbolo, tra ciò che è simbolo e ciò che non lo è; io qui col termine simbolo mi riferisco alla teoria junghiana e alla cultura greca, per cui simbolo è quella cosa capace di tenere insieme gli opposti in tal modo esprimendo un contenuto che non sarebbe altrimenti esprimibile. Cerchiamo quindi  di evitare il destino di morte, a cui, per quanto detto prima, sembriamo condannati, cerchiamo di non uccidere nulla, cerchiamo di non suicidarci e guardiamoci indietro. Immaginate di essere all’incirca cento anni fa, in una clinica psichiatrica svizzera, un paziente guarda dalla finestra, e osserva il sole, ma solo quando sale, poi quando l’astro si innalza, diventa più luminoso, più “grosso”, lui si schernisce, scappa, ha paura, per poi tornare ad osservarlo quando è al tramonto. Ad assistere alla scena c’è un medico che col tempo sarebbe diventato uno dei padri della psicoanalisi: Carl Gustav Jung. Ora cambiate posto, siete in Africa, assistete ad un rito in cui si onora il sole, però, nuovamente, quando il sole si approssima all’apice della sua traiettoria, i nativi si coprono il volto, vi è un tabù: non possono vedere il sole quando è allo zenit, lo potranno rivedere quando, nel suo corso da est a ovest, raggiungerà il mare ed in esso si calerà. Cambiamo di nuovo posto, immaginate ora di essere in Sud-America, insieme agli Aztechi, in una specie di grande campo di calcio, con un paio di anelli scavati nel marmo, posizionati a otto metri dal suolo. Vi sono due squadre che, senza poter usare mani e piedi, devono far passare nel foro degli anelli una palla di caucciù, che prima era stata imbibita nel sangue – si tratta dunque non di un gioco o di uno sport, ma di un sacrificio rituale – ovviamente è una cosa difficilissima, anche se le squadre si sono esercitate per anni. Vi è anche una specie di “campionato”: la squadra che lo vincerà si porterà verso un ceppo, su questo vi sono dei bassorilievi, tra cui un teschio dalla cui mandibola escono sette serpenti, vi sono incise anche delle spighe… ma torniamo ai vincitori, questi appoggeranno sul ceppo il capo, che verrà loro tagliato. Ora:… tutti questi tre percorsi parlano della stessa cosa. Li potete facilmente trovare nei miti cosmogonici e nei riti di primavera. Descrivono un ciclo di morte e rinascita. Il mais per gli Aztechi era un simbolo di rinascita e lo è ovviamente anche per noi occidentali… il mais, il frumento, il sole, il ciclo del sole, percorso di morte e rinascita sono anche  la rappresentazione simbolica di un episodio depressivo: il sole che si inabissa nel mare come l’introversione della libido nell’inconscio di un individuo che sta per entrare in depressione,  il percorso sottomarino come  un tragitto nell’inconscio, i mostri sottomarini come i mostri dell’inconscio e se da questi non è catturato, se vince, il sole all’alba come il riemergere dell’individuo dal suo mondo ctonio, con nuove vestigia, con nuova forza, così come il sole che raggiunge lo zenit, portando con se i contenuti rubati, sottratti, pescati dall’inconscio. Tali contenuti si manifestano nell’immaginazione guidata, nei sogni, nelle fantasie, ma anche nelle allucinazioni, nei deliri e in tutte le forme d’arte.. Questo ciclo, vera e propria rivoluzione, porta  l’individuo a pescare delle immagini archetipiche nel suo mondo interiore. Sarà la loro messa in atto simbolica a farle fa diventare terapeutiche. Le immagini archetipiche, le immagini simboliche diventano terapeutiche e riescono a sfuggire al loro destino di morte perché i processi simbolici non vengono uccisi, ma al contrario sono portati a compimento. Questo processo è terapeutico per la coppia analitica, per entrambi, analista e analizzando; perché mette in relazione due individui, crea un temenos un hortus conclusus, un posto protetto, sicuro, dove può accadere che l’immagine simbolica si manifesti nella sua pienezza e faccia parlare l’inconscio del terapeuta con quello del paziente e viceversa. E’ terapeutico perché  accoglie la messa in atto di una parola simbolica capace di trasformare  il destino psicologico di un individuo. La parola della poesia non è propriamente terapeutica, anche se è capace di contenere le emozioni, di dare forma a sentimenti e sensazioni,  di dare un senso alla vita, di preservare (a volte) dal disagio psichico, di contenerlo. Ma, soprattutto, riconsegna l’opera simbolica all’inconscio collettivo, all’inconscio del mondo, lo trasforma, arricchisce l’inconscio culturale, diventa simbolo e la parola finalmente vive. La parola della poesia è.

Stefano Baratta